Isola di Kere

 

Faro di Punta Sophia Psuke Baia della Vera Finzione Rocca Grotta della Memoria

Senza nome

15-04-2014

Infilo la chiave nella toppa. E’già a casa, seduto in salotto davanti alla TV. Guarda la solita, immancabile partita.

-“Ciao, è tardi. Dove sei stata?”

-“Sono passata al laboratorio, erano pronte le analisi.”

-“Analisi? Sta male qualcuno?”

La tua voce non ha nessuna inflessione.

-“Nessuno. Io sto benissimo, fin troppo…” Sorrido e gli vado vicino.

Silenzio. Ha capito.

Dopo qualche minuto riprende a parlare con un tono diverso, noncurante. Non mi guarda.

-“Giorgio ha organizzato una mangiata per domani, in quell’agriturismo alle spalle di Chiavari.”

-“Andrea, sai cosa sta succedendo? Vorrei che ne parlassimo.”

-“Non vuoi andare?”

-“Sto cercando di rimanere calma. Non esagerare.”

-“Mi sembra non ci sia proprio nulla da dire.”

Comincio a sentire il sangue salire al viso. Le orecchie mi bruciano.

-“Credi?”

-“Certo. C’è solo da sbrigarsi. Una volta fatto non ci si pensa più.”

-“Di che parli? Una volta fatto cosa? Chi non ci pensa più?”

La mia voce è alterata. Mi alzo e mi piazzo tra lui e la TV.

Andrea si sposta in modo da poter vedere lo schermo.

-“Ora cominciamo con le sceneggiate. Non essere ridicola.”

-“Voglio che tu mi dica che pensi veramente quello che dici!”

-“Non solo lo penso, ne sono convinto. Non c’è nessun’altra soluzione possibile. Capitolo chiuso.”

-“Perché? Siamo alla fame forse? Sei disoccupato? Non abbiamo una casa? Perché allora?”

-“C’è bisogno di un perché?”

-“Certo e di uno bello grosso anche.”

-“Questa casa è troppo piccola.”

Lo guardo sbalordita.

-“Stai scherzando spero.”

-“No affatto. E’ esattamente per tre persone, non una di più.”

-“Tu sei pazzo. Non viviamo in un monolocale ma in centotrenta metri quadrati. Trovane un’altra.”

-“Emanuele è grande. Abbiamo una vita tranquilla, organizzata bene. Non ci penso neppure a cambiare le mie abitudini.”

-“Ah certo le tue abitudini…farti i cazzi tuoi vuoi dire?”

Impassibile continua a fissare lo schermo.

-“Dai passa quella palla!”

-“Ti sto ancora parlando. Sono qui, mi vedi?”

-“A te piace complicarti la vita, a me no. E’ questa la differenza.”

-“No, fortunatamente non è solo questa. Comunque non ero sola quando è successo.”

-“Tu sapevi come la pensavo. Mi hai preso in giro.”

-“Quella presa in giro sono io, e non certo da oggi.”

-“Fa come credi, rimango della mia idea. Non ho voglia di discutere.”

-“Neppure io. Sono più cocciuta di quello che pensi.”

-“Sei solo una pazza masochista!”

-“Se non lo fossi non sarei certo più qui. Hai paura che ti rovini la vita?”

-“Tranquilla, non me la lascio rovinare ne da te ne da nessun altro!”

Non riesco più a trattenere le lacrime. Gli volto le spalle.

Sento che si alza. La porta sbatte. Il silenzio in casa è più grande

E’ passata una settimana.

 

Questa mattina mi toglieranno il bambino.

La sala d’attesa dell’ospedale è deserta, sono qui sola, aspetto che l’infermiera mi chiami.

Mi hanno detto come funziona. Poche candelette e tutto finirà lì, sarò libera da questo piccolo grande fardello.

Dentro sto morendo.

 

Tutte le mie lacrime, la stupida felicità che ho provato quando ho avuto la conferma di essere in cinta finiranno. Da cretina quale sono, ho sperato fino all’ultimo momento che Andrea mi chiamasse, dicesse che non dovevo liberarmene, che lo voleva anche lui questo bambino.

Invece mi ha lasciato sola e io non ho avuto la forza. Mi sento una merda, mi odio per questo ma non ho il coraggio di assumermi la responsabilità di una nuova vita, io, che non so quasi cosa farmene della mia.

 

L’infermiera mi ha dato una bustina e ha detto che devo metterla io.

Resto inebetita, tra le mani la possibilità di soffocare qualcosa che sta crescendo dentro di me.

 

Non dovevo essere io a farlo, perché non l’ha fatto lei, perché non viene qualcun altro a inserire questa maledetta candeletta????

 

Ma sono andata in bagno e l’ho messa. Tutto come previsto.

Poi mi sono distesa su una barella, nella sala dove si svolgono le lezioni di preparazione al parto. Che ironia. Foto di donne col pancione e di bimbi in braccio a mamme più coraggiose di me mi fissano dalle parti verde chiaro.

 

Non mi hanno dato neppure un letto, mi trattano con una freddezza che scivola nel disprezzo. Chi cazzo sono loro per giudicare?

 

Ho messo un assorbente, tra poco sarà nuovamente una donna normale, libera e vuota……

 

Hanno un bel parlare di embrione, io mi sento come se commettessi un assassinio. Ci riempiamo la bocca di termini scientifici, ma questo “embrione” sarebbe diventato un bambino e io lo sto uccidendo. L’ipocrisia di chiamare le cose con nomi diversi aiuta a scaricare la coscienza.

 

Il tempo passa e non succede niente.

 

Sarebbe proprio un bello scherzo se non facesse l’effetto dovuto. Se quel cosino fosse tanto forte da resistere e rimanere aggrappato a me a dispetto di tutto.

Chissà cosa sta succedendo là dentro, quali bufere stanno per scatenarsi. Non capirà nulla di quello che accade, si chiederà perché tutto intorno stia tremando.

 

Dicono che “il farmaco provochi contrazioni che inducono il distacco dell’impianto embrionale”, proprio così hanno detto.

 

Gli sembrerà di essere capitato in mezzo ad una tempesta e si troverà sbalzato fuori dalla nicchia dove si credeva al sicuro. Lui si fidava di me.

Se ne andrà in silenzio, senza clamore. Scivolerà via perché sente che non è voluto,  nessuno  lo aspetta, nessuno sorride pensando a lui, nessuno gli parla. Meglio tornare al nulla di prima, dimenticarsi, non esistere, quando chi ti da la vita non sa che farsene di te.

 

Mentre scrivo spio il mio corpo. Mi sento esattamente come questa mattina quando sono arrivata, non sta succedendo proprio nulla. Dalle finestre aperte entra il rumore della strada. Il grido di un’ambulanza rompe la monotonia dei suoni. Qualcuno là fuori sta soffrendo.

In questo stanzone, isolata da tutto, sto sdraiata su una barella con un lenzuolo sulle gambe. Sono entrati alcuni infermieri. Tutti sanno perché sono qui e io mi vergogno terribilmente. Mi sento giudicata e condannata. Sono io la prima che giudica e condanna.

 

Quanto ci mette a fare effetto? Perché non mi si torcono le budella e non sento dolori lancinanti? Questa immobilità e questo silenzio ora sembrano quasi innaturali.

Ciao bambino. Chissà cosa saresti stato? Maschio o femmina? Chissà che occhi, che capelli, che viso avresti avuto, se ti sarei piaciuta come mamma. Chissà che vita avresti vissuto e come sarebbero state le giornate insieme a te.

Saremmo potuti restare tuo fratello, tu ed io,  se avessi avuto un po’ di coraggio, se non fossi fatta come sono. Scusami. Scusa la mia debolezza, il mio poco amore.

Credimi, non vale la pena avere una madre come me, non dispiacertene troppo. Non hai perso nulla.

Quello che hai perso sono i colori del cielo, l’aria, le nuvole, le guerre,  gli odi politici, hai perso il sole, i fiori a primavera, l’AIDS, la pioggia d’autunno e il commercio di organi, la droga, la neve e l’inverno, la pulizia etnica, il vento sul mare e la sabbia calda d’estate.

In fondo ti sei salvato, l’hai scampata bella.

Hai perso la libertà di soffrire e di ridere, non hai potuto scegliere.

Hai perso la vita.

 

Ancora niente. Perché?

Cominciano i dolori, sono poco più forti di quelli delle mestruazioni. Tutto qui?

E’ entrata l’infermiera.

-“Come ti senti? Cerca di stare coricata, se dovessi cadere ci andiamo di mezzo noi.”

Nei suoi occhi non leggo né simpatia né comprensione. Mi porge sgarbatamente una seconda candeletta.

-“Metti anche questa, vedrai che te la sbrighi in poco tempo”

Come un automa ubbidisco.

Dopo qualche minuto si scatena l’inferno. Mi trascino in bagno. Qualcosa cade nell’acqua scura del water.

 

Eri  tu quel grumo di sangue che è scivolato giù nello scarico di un cesso di ospedale?

Un attimo e non ci sei più. Non ho avuto neppure il tempo di rendermene conto.

Hai fatto piano, silenzioso e triste ti sei staccato e te ne sei andato per sempre.

Hai lasciato un vuoto dentro di me, vasto e silenzioso come lo spazio siderale.

 

Di colpo si è fatto buio, cerco di mantenere il controllo, per quanto possa ancora capire, respiro con affanno e tutto intorno gira. Riesco a trascinarmi in corridoio e a trovare la forza di chiedere aiuto. Arriva gente, medici e infermieri si muovono intorno a me.

Forse sto per morire, ma non mi importa più.

I dottori hanno detto che ho avuto un collasso, dovuto forse al dolore o forse al farmaco stesso.

Mi risveglio nel letto di una corsia. Mia madre è vicino a me e piange.

“Perché non me l’hai detto?”

“Perché avrei dovuto?”

 

Avrei voluto morire veramente. La flebo goccia a goccia allevia il dolore, vorrei rimanere in questa incoscienza dove non c’è neppure il dolore morale, invece torno alla vita pian piano.

E’come se avessi fatto un viaggio attraverso lo spazio sotto una pioggia di meteoriti e di stelle infuocate e fossi approdata di nuovo sulla terra.

 

Verso sera arriva anche Andrea. Ha portato Emanuele, forse per paura di quello che potevo dirgli.

-“Mi dispiace. Non volevo che succedesse niente di tutto questo.”

-“Davvero? Non mi sembrava che la mia salute fosse una tua preoccupazione.”

Mio figlio mi guarda con quei suoi occhi neri e brillanti. Occhi che ridono, come erano i miei, una volta.

-“Torni a casa presto vero mamma?”

-“Certo tesoro, per un po’ non andrò neppure al lavoro. Ce ne staremo tu ed io, stretti sul divano. Ti racconterò tutte le storie che vorrai.”

Emanuele mi sorride, mi abbraccia e si allontana la mano nella mano con suo padre.

 

Sono tornata a casa.

Dovrei sentirmi debole, invece ho dentro una forza che non mi aspettavo.

Ceniamo tutti insieme, poi Andrea si siede sul divano e accende la TV.

Chiamo Emanuele, andiamo nella sua camera e chiudo la porta dietro di noi.

Mi sono preparata queste parole, le ho pensate una ad una, cercando di non far trasparire la mia rabbia, il mio risentimento contro suo padre. Non c’è bisogno che sappia. Emanuele piange. Piangerà per qualche giorno.

 

E’ un mese che viviamo da mia madre, sono tornata nella mia camera da ragazza, questa volta però con mio figlio. Stiamo aspettando che Andrea trovi una sistemazione. Sembra non ci voglia più molto. Il rapporto tra padre e figlio non è cambiato. Andrea lo porta a scuola ogni mattina e lo accompagna agli allenamenti. Sono felice per questo.

La mia vita invece è cambiata.

 

Ho pensato che non avrei più sorriso, che non avrei dimenticato.

Sono tornata a sorridere, ma non ho mai dimenticato.

Clara Negro


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