Isola di Kere

 

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Bastare a se stessi

15-04-2014

Sfoglio la bibbia: Vogue. Cinquecento pagine per ottocentotrentadue grammi. Quaranta percento di pubblicità. Quaranta di servizi fotografici. Venti di parole. Si rincorrono articoli sulle diete e quanto sarebbe bene farle per le formose donne italiane. Articoli sul sesso e quanto è giusto rinunciarci se non si è provvisti di una massiccia dose di biancheria La Perla e guepiere Chanel. Ci sono solo modelle, alte e belle. Modestamente modelle.

“Che fai, scendi?” mi urla Marta. Non rispondo. Sarebbe come dire ad un analfabeta che la prima vocale è la “a”. Semplicemente non capirebbe. Marta però non si arrende: continua a urlare. Al terzo richiamo non resisto. “Arrivo, ma calmati”. Allora minaccia qualche parola veloce e poi si allontana. Sento i tacchi di legno che si muovono sulle mattonelle di cotto. Il cotto toscano non mi piace, ma Marta si ostina a dire che è proprio una bella cosa, è una cosa da ricconi, precisa, avere un cotto invecchiato naturalmente nello sgabuzzino per la domestica. Io non ho mai voglia di discutere con lei così finisce che sto zitta e che lei dice che ha speso settecentomila lire per dieci metri quadrati mica perché è scema ma perché il cotto invecchiato naturalmente è il must di stagione. Mi arrendo presto alle sue parole. Lei così si sente fiera. Io, tranquilla. Ultimamente la sopporto poco. Dice che dovrei uscire di più e cambiare ragazzo. Che uno più ricco e meno silenzioso sarebbe meglio del mio solito musone. A volte credo che abbia ragione, ma la maggior parte delle volte non lo ammetto. Detesto farlo.

Scendo dalle scale senza affrettarmi. I miei piedi aderiscono perfettamente al parquet caldo. Mi sento una rana, una di quelle che sta ferma al sole e si gode i raggi. Le invidio, io, le rane.

- Senti, ma cosa avevi da urlare tanto?
- Ha chiamato Valentina. Le ho detto però che stavi a letto. Richiama.
- Quanto tempo fa?
- Ora.
- Voleva?
- Boh. Credo dirti qualcosa a proposito di martedì, o forse. Senti, chiamala e basta. Non me lo ricordo.

Marta oltre ad essere una presuntuosa aveva una memoria terribile. Mia madre diceva che era colpa dei due pacchetti di sigarette che si fumava al giorno. Io dicevo, invece, che era semplicemente cretina. Spesso litigavamo sul suo quoziente intellettivo ma non arrivavamo mai ad una vera e propria conclusione: ognuna di noi restava, imperterrita, del suo parere.

- Ha chiamato anche qualcun altro?
- No. Nessuno. Ma, tanto che ci sei chiama anche tua nonna. Sai quanto si senta sola ultimamente.
- Uhm.

Alzai la cornetta. Le dita facevano meccanicamente il numero di nonna Iolanda, quasi mi sentissi in debito. La voce stridula e dall’accento profondamente palermitano di Caterina rispose. Blaterò qualcosa sulla casa e che mia nonna era alla votazione e che si era candidata. Per un po’ riuscii a seguire poi mi persi nella sua voce. Nella ritmica alternanza di tempi e cadenze. Vocale aperta, consonante a mezza bocca. Quando riuscii a riprendermi e chiedere “Nonna?” il telefono rispondeva, maleducatamente: tu, tu, tu: aveva attaccato. Pensai di rifare il numero. Poi mi dissi che sarebbe stato inutile: nonna non c’era. Probabilmente era ad una di quelle stupide riunioni del volontariato. Quelle dove tutte le ricche vecchie del paese si riuniscono. E discutono. Parlano dei poveri e inventano sempre nuovi modi per aiutarli. Alcune fanno poi dei bei centrini di merletto, convinti che quando non hai che mangiare, se almeno hai un bel centrino bianco neve da guardare, ti senti meglio. Li trovavo divertenti i loro discorsi. Una volta, quando c’ero andata anche io alla riunione, al centro della discussione c’era se la pasta da consegnare ai poveri nei pacchi doveva essere Carrefour o Esselunga. Il prezzo, per l’identico peso, era lo stesso ma alcune contestavano che il grano di un determinato marchio non fosse realmente italiano, ma cinese. “E’ il grano dei gialli” aveva commentato in dialetto stretto una . Nelle sue parole non c’era né razzismo né polemica. Solo il desiderio, semplice e ridicolo, di dare una pasta capace di assorbire meglio il sugo; semmai ce ne fosse stato.
“ Per la maggior parte siamo vecchie – mi aveva detto mia nonna in quella occasione, come a volersi giustificare – e vedove. Trovati un marito. Hai capito? Trovati un marito”. Non avevo subito afferrato il nesso fra il marito, la pasta al sugo, e l’essere vecchia. Avevo però annuito: “Certo. Senza un uomo, una famiglia, non si può vivere” avevo poi osato aggiungere. Tastavo il compiacimento di mia nonna, con compassione.

Posai la cornetta: adesso era il turno di Valentina.
Proprio in quel momento stava alzando la testa dal cesso. Il vomito le colava dalla bocca. Prese un po’ di carta igienica e si pulì. Appoggiò la schiena al water. Chiuse gli occhi. Cercò, a tastoni, con la mano destra, il pacchetto di sigarette. Ne prese una , sempre tenendo gli occhi chiusi. Con la sinistra prese i fiammiferi. Accese.

- Vale casso ti muovi?
- Eh?
- Martina al telefono. Ti muovi?

La madre di Valentina, infermiera anoressica con extention nere su base castana, parla. La sento, benché tenga la cornetta relativamente 0distante dalla sua stridula voce. Ha trentasette anni ma non ha ancora capito che la “z” in Italia si pronuncia “z” e non con lettere simili alla s di stronza. “Casso casso sei in ritardo” ripete sempre, trascinandosi il suo grosso culo per la casa, associando spesso all’elementare espressioni banali completamenti. E’ convinta che le basi del mondo siano due: la puntualità e la “s”. Spesso, fra di noi, io e mia madre, ci chiediamo chi le abbia dato l’abilitazione. Ogni tanto infatti ha certe uscite che fanno paura, tipo: “Oggi mi sento anemica. Ho dovuto mettere su più phard del solito” o “Mi volevano dare la laurea, honoris causa, in medicina, ma ho rifiutato. Mi sembrava uno spregio verso quei poveri bambini nel mondo che muoiono di fame”. Quando ci chiedevamo così apprezzavamo realmente Valentina. Era oro colato, in confronto alla madre.

Valentina ha diciotto anni da due mesi. Capelli lunghi castani. Occhi marroni con striature verdi, come sottolinea ossessivamente lei. Non ha cervello e per questo i suoi quaranta chili per un metro e settanta non sembrano così pochi. Il cervello, infondo, pesa. Valentina scende veloce per le scale. La sento mentre impreca. Odia essere disturbata mentre fuma. La sigaretta in mano, la stringe fra l’indice e il medio. La cenere svolazza. “Chi cazzo è che rompe?” starà pensando. Probabilmente.

- Scusa. Sono io. Che volevi prima?

Sta zitta. Probabilmente non ha riconosciuto la mia voce. Ci mette sempre un sacco di tempo a capire che sono io, a chiamarla. Benché da quasi due anni la chiami tutti i giorni. Benché io sia l’unica a farlo, ormai.

- Ehi. Scusa non ti avevo riconosciuta. Sai, sono un po’ rimbambita oggi.
- Non ti preoccupare. Non è una novità.
- Come scusa?
- No, niente.

Chiunque vomitasse regolarmente dopo ogni pasto e prendesse dalle sette alle nove pasticche di lassativo, avrebbe dei problemi pari ai suoi. Che, di per se, erano aggravati da una stupidità genetica e da un particolare cattivo gusto nel vestire.

- Che mi dovevi dire?
- Ah, tante cose.
- Di urgente, dico.
- Ah. Volevo dirti, hai letto la bibbia?
- Fammi capire, mi hai chiamato per sapere se ho letto la bibbia?
- Certo. Che domande!
- La stavo sfogliando. Prima di Marta.
- Marta? Marta è lì? Pensavo fosse in America.
- Ma se ti ha risposto lei!

L’avevo messa in confusione. Mi sentivo leggermente in colpa. Adesso, per i prossimi dieci minuti, mi avrebbe chiesto scusa per la sua incapacità di associare le voci alle persone. Poi mi avrebbe recitato a memoria la poesia della povera ragazzina scema che aveva problemi di udito fin dalla nascita perché guardava i cartoni troppo vicini alla televisione ed era un po’ lenta di ragionamento, come amava ripetere lei, a causa dei power ranger. Non capivo mai cosa volessero dire quelle frasi, ma conoscendo i genitori sapevo che dovevo giustificarla. Almeno in parte.

“La bibbia per ora non l’ho letta. Adesso me ne torno sul letto, a sfogliarla. Più tardi mi sa che viene il dottore. Dopo credo passi mia zia. Dopo ancora mi vedo la televisione e poi me ne vado a letto. Domani ti chiamo quando mi sveglio. Ciao” dissi tutto d’un fiato sperando di aver risposto esaurientemente a tutte le domande, sempre uguali, che mi porgeva quotidianamente. Da circa due lunghissimi anni. La sentii mentre prendeva fiato. Alla fine, parlò: “mi mangio un panino. Cerco di non vomitare. Un po’ di tv. Il letto. Ciao”. Poi, attaccò. E so che anche lei, in quel momento, probabilmente, stava facendo lo stesso. Per un po’ mi sentii felice: eravamo in sintonia. Come la terapia diceva. Quando funzionava c’era sintonia, fra le due malate. La nostra mi sembrava solo semplice routine, ma non volevo fare la solita pessimista, come diceva la dottoressa Marchetti, quando andavamo da lei. Ci faceva spogliare. Pesare. E poi voleva che parlassimo in prima persona raccontando le cose che l’altra faceva. Era umiliante. Quello che per me aveva valore per Valentina non ne aveva. Quello che per lei era vitale, come dire di aver visto alla televisione un bambino più magro di lei, per me era una stupidaggine. Quando ero seduta sulla sedia rigida di plastica gialla pensavo a tutto fuorché alle parole di Valentina. Iniziavo a odiarla per quello che mi faceva fare. E odiavo anche la dottoressa, per il stupido esercizio che ci aveva assegnato. Avrei preferito, senza dubbio, tenere un diario quotidiano, come durante la prima terapia. Certo, non ero guarita ma almeno non mi ero sottoposta alle chiacchiere di una cretina patentata.

“Allora siete soddisfatte?” chiese poi, visibilmente disinteressata, la Marchetti. Parlava avvolta in un camice che le copriva la maglietta verde troppo attillata per le sue tette cadenti. Sembrava quasi che stesse per soffocare. Non risposi, mi limitai ad abbassare lo sguardo. Valentina iniziò un lungo monologo che, oltre a non avere senso, era indescrivibilmente noioso. Iniziò a parlare di quando sua madre aveva tradito il padre. Lui aveva letto una lettera che l’amante le aveva scritto. Aveva chiamato la moglie di lui per raccontarle tutto. Poi, aveva minacciato il “bastardo”, come lo chiamava lui. “Più ascolti e più vedi meglio è” aveva detto poi, alzando la voce, senza accorgersene. “Più soffri, meno perdoni” aveva risposto la moglie tradita, senza pensarci.
“ Vedo che i progressi sono notevoli” aveva continuato, questa volta sinceramente entusiasmata, la dottoressa. Bruscamente interrotta Valentina aveva perso il filo del discorso. La dottoressa aveva colto l’occasione. “Andate, è tardi” ci aveva intimato, indicando l’orologio a muro bianco e nero. Le lancette rosse segnavano le sette e dieci. Avevamo ancora cinque minuti per parlare ma, evidentemente, a lei non interessava. Ci alzammo. Ringraziammo con tutta l’educazione che ancora conservavamo. Uscimmo dalla stanza. Pagammo. Salutammo la segretaria, che portava addosso i segni della passata anoressia. Uscimmo in strada, per fumare.

“Non sto soffrendo” disse Valentina, mentre stavamo cercando un tabacchino per le sigarette.
“ Davvero?” chiesi subito io. Lei annuì. “E tu?” poi, disse. Volevo dire la verità, per una volta. Volevo dirle che avevo sempre mentito. Che continuavo a vomitare. A fumare. A bere.
Lei, sentendo il mio silenzio, aveva aggiunto, come per stringermi la mano, con le parole: “Le persone sono diverse. I tempi. Le educazioni. I posti.” Non avevo risposto, ma avevo annuito, come per farle capire che ero d’accordo e che le volevo bene. Davvero, questa volta.

Un ragazzo biondo ci offrì due sigarette. Disse che il tabacchino era troppo distante, per noi. Quando aveva detto “per voi” mi ero sentita morire. Una reietta, mi ero sentita. “Ho sbagliato percorso” avevo detto, mentre accendevo l’estremità della sigaretta rollata male. “Perché?” aveva chiesto Valentina dopo poco, più reattiva del solito. Non avevo saputo rispondere.

Camminammo a lungo sull’Arno quella sera. I motorini ci passavano accanto. Alcuni suonavano. I ragazzi ci guardavano. Non capivo il perché, ma mi piaceva. Mi piaceva essere osservata. Specie quando mi sentivo bene, bella. Camminando sul fiume mi sembrava di essere lontana un miglio. Da tutti. Non mi sembrava di essere sola, nel mondo di luci e di motorini che mi circondava. Nel mondo di ragazzi che mangiano pizza (cinquecento calorie) e bevono coca (centosettanta calorie per lattina). Ci passò accanto una macchina. Lo stereo al massimo suonava la Consoli. Era “fiori d’arancio”. La canzone preferita di Adelaide. Prima che.
Valentina sentendola si rattristò subito. Mi prese la mano. La strinse. “Ti capisco” mi limitai a dire. La sua mano strinse ancora più forte. Tornammo a casa mia.
Dormimmo insieme quella notte. Ognuna controllava che l’altra non andasse a svaligiare il frigo. A vomitare.

Dormimmo per tutta la domenica. Quando ci svegliammo accendemmo una sigaretta e fumammo del letto. Da poco aveva imparato a fare i cerchi con la bocca. La vedevo mentre si impegnava. Aspirava. Contraeva la bocca. Espirava poi piccoli cerchi, dai dubbi contorni. Il giorno dopo sarebbero stati cento giorni dall’esame. Saremmo dovuti andare in Piazza dei Miracoli per toccare la lucertola. Nessuna delle due ci credeva che avremmo potuto prendere cento. Infondo era matematicamente impossibile. Ci trascinavamo dalla quarta ginnasio massicce insufficienze contornate da incredibili lacune. Era un mistero, non solo per lei, che fino al quel momento ci avessero ammesse. “Che dici, ci segano quest’anno?” esordì poi lei, reggendo con la destra la sigaretta che si avvicinava al filtro. “Senti, se ci segano adesso giuro che li denuncio. Non puoi illudere fino all’ultimo due belle ragazze e poi ritrattare” dissi. “Semplicemente non puoi” ripeté lei, convinta. Prese un’altra sigaretta dal pacchetto. Se la mise in bocca e l’accese premendola contro l’altra, mezza spenta. Il mozzicone lo tenne in mano per un po’. Lo guardava con attenzione, come fosse intenzionata ad adottarlo. Prese il posacenere. Lo schiacciò su, con forza. “Però ne abbiamo fatte di assenze” aggiunse, dopo aver aspirato ancora. “Ma siamo state malate” mi affrettai ad aggiungere io. Ci guardammo. Ridemmo, a lungo.
Il giorno dopo fu una palla. Il Cosmi e il Marzi vennero sotto casa mia a chiamarci. Scendemmo dopo poco. “Ho una notizia sensazionale” esclamò subito il Marzi, il più cretino dei due, senza dire ciao o altro. A nessuna delle due interessava ma sapevamo che comunque ce lo avrebbe detto. Fingemmo interesse e lui spiegò, come stesse per snocciolare la più importante delle notizie. “Il Donati, quello di educazione fisica, è finalmente crepato”. Guardai il Cosmi, sperando che mi dicesse che era uno dei loro soliti e insulsi scherzi. Lui aveva gli occhi giù, come se non avesse mai visto le sue brutte converse rotte. “Come?” disse poi Vale. Raccontò quindi che il Donati voleva dimostrare a dei ragazzetti di quinta ginnasio che era capace ancora di fare i mille metri in tre minuti e diciotto. Si era dimenticato che soffriva di cuore. Ed era crepato, all’ottantesimo metro. Giù. Stecchito. Con la bava e il sorriso contratto. I ragazzini avevano pensato ad uno scherzo. Solo dopo un paio di minuti avevano realizzato. “E’ fantascientifico” precisai. “Non ci sta proprio che Rodolfo crepa nei mille metri” aveva continuato Vale. Invece era proprio così. Quello di educazione fisica, quello che offendeva i figli dei separati. Quello che era nato a Parigi senza mai vederla sul serio. Quello, era morto. “Almeno la pianterà di segnalarci sulla pagellina che non facciamo educazione fisica. E, soprattutto, questa è la buona volta che la pianta di darmi cinque alla fine del quadrimestre” dissi. Non mi vergognavo affatto, detto fra noi. Il Marzi e il Cosmi pensarono che stessi scherzando e che era il mio modo di affrontare la vicenda. Ma, per me e Vale era già finita. Il Donati era morto. Nessuno ci avrebbe chiesto quanto è lungo il campo di pallavolo o quanti anni può avere massimo un arbitro di calcio per lavorare. “Andiamo ché è tardi” aggiunsi. Salimmo sui motorini. Destinazione, Piazza dei Miracoli. Di gente ce n’era parecchia. Gente da tutta la Toscana e qualche probabile cento. Per lo più, guardando le facce, sarebbero stati settanta, al massimo ottantacinque. Punk. Freak. Pottini. Sembrava che fossero usciti tutti da un film di Muccino. Il che mi disturbava parecchio e non per l’essenza in sé di quei film, che sostanza non ne hanno, ma perché mi sentivo terribilmente scema a guardare una lucertola di pietra recintata. “Era meglio se ce ne stavamo a casa a vedere tutta la scena dalla telecamera su internet” ripeteva Vale traducendo alla lettera il mio pensiero. Una ragazza, alta e grassa, provò a scavalcare. Un poliziotto la richiamò e la scena della sovversiva finì lì. Parecchi ragazzi iniziarono a girare intorno al Battistero. Altri, a fare cento passi avanti, cento indietro. Alcuni gareggiavano per raggiungere le cento bestemmie, i cento rutti, i cento culi toccati. Noi decidemmo di raccattare cento sigarette. Arrivammo a sessant’otto un voto che, sinceramente, non ci sarebbe dispiaciuto. Verso le dieci ce ne andammo. Nessuna delle due voleva più essere palpata da viareggini maleducati che non riuscivano a coniugare un verbo e a parlare senza inserire “dela fia” o parolacce ben assortite. Andammo in un bar dietro la torre, di fronte all’ospedale. Camici bianchi affollavano il bancone. Sembrava di essere a Pasqua durante la settimana santa a Martina Franca. I vecchi e i bambini, allora, si vestivano di bianco e camminavano, scalzi, per la città. Bevemmo un caffè rigorosamente senza zucchero. Accendemmo l’ultima sigaretta. Fumammo, in silenzio, mentre qualcuno cercava di contare all’indietro partendo da cento.

Flavia Piccinni


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