15-04-2014
L'irruzione
Piero spinse la porta ed entrò senza salutare la cognata, che rimase immobile sull’uscio della porta con la maniglia in mano. Si incamminò direttamente verso il fratello, che guardava il telegiornale. Vedendolo entrare così determinato, si alzò subito dalla poltrona e aprì la porta dello studio, fece un segno perché entrasse e la rinchiuse da dentro. Piero non gli diede nemmeno il tempo di sedersi nuovamente. Lo spintonò fino a farlo sbattere contro la veneziana.
– Cosa avete fatto a mio figlio?
– Ehi! Ehi! Calmati. Sei in casa mia, lo sai?
– Calmati un cazzo! Cosa avete fatto a mio figlio?
– Io al tuo figliolo non ho fatto proprio nulla. Non ho partecipato all’irruzione di quella scuola, ero alla questura quella notte.
– Rispondimi. Non fare il cretino.
– Piero, per Dio. Era una guerriglia urbana quella, sembrava la battaglia di Algeri... Tutti sapevano che sarebbe stata un’operazione di guerra. Tu non dovevi dargli permesso di andarci.
– Lui dormiva. Lui dormiva quando hanno fatto irruzione in quella scuola. È stato svegliato a manganellate nel mezzo della notte. Non aveva un’arma con sé, niente. L’hanno portato via e torturato. Questa la chiami un’operazione di guerra? È stato solo un massacro, un vero massacro, perdio! compiuto da vigliacchi come te, che non hanno le palle di affrontare quelli armati di bastone e allora scaricano la frustrazione e la rabbia contro i ragazzi pacifisti, perfino le persone anziane...i bambini... E poi lo hanno ridotto in quello stato, le ossa spaccate, i denti rotti, il naso sfondato, gli occhi pestati, una maschera di sangue... Vergogna! Siete peggio della polizia turca, voi. Peggio dei sudamericani di Pinochet, almeno quelli non pretendevano di essere al servizio dei cittadini...
– Non è così come dici tu. Dentro a quella scuola c’era anche gente violenta...
– Stai zitto! Vergognati! Sono stufo delle tue bugie. Lo sai benissimo che l’irruzione è stata fatta per impossessarsi dei filmati e dei documenti dei computer. Come la chiamate voi, questa impresa? “Bruciare gli archivi”, giusto? Perché già allora avevate paura di essere incriminati per tutti gli abusi e le illegalità che avevate commesso. E per evitarli avete commesso illegalità ancor peggiori. È sempre così, più la tocchi, la merda, e più puzza, non è vero? I ragazzi dormivano sul pavimento... Vigliacchi! Volevate massacrare qualcuno, e avete scelto quelli che non potevano resistere.
– Te l’ho già detto, Piero. Io non c’ero.
– Ma mio figlio c’era!
– Sei fuori di testa!
– Davvero?
– Vattene a casa.
– E pensare che cretini come te sono pagati da me, con le mie tasse... Se non la senti tu, la sento io la vergogna, la sento io! capisci? di pagare a quelli come te.
– Guarda che mi stai offendendo... Lo Stato mi paga perché...
– Lo Stato sono io, imbecille! Non capisci? Lo Stato è mio figlio. È lui chi ti paga. È lui il tuo padrone.
– Stavo dicendo!... lo Stato mi paga per mantenere l’ordine pubblico...
– L’ordine pubblico?... Ma a chi la racconti sta favola? Mi credi un deficiente? Mio figlio è uscito della prigione tre giorni dopo, con le mutande inzuppate di sangue, e non mi ha lasciato vedere da dove veniva tutto quel sangue perché si vergognava. Hai capito o no? È questo l’ordine pubblico di cui parli?
– Guarda che ci sono state decine di ragazzi arrestati. Non solo Marco...
– Non pronunciare il nome di mio figlio. Non sei degno di nominarlo. Sei diventato un torturatore, un criminale. Non ripetere quel nome mai più.
– Non so più che dirti, Piero. Eravamo lì per proteggere tutti quei capi di Stato. L’ordine del Governo era di...
– Avete fatto cose orrende dietro questo ordine. Avete colpito gente migliore di voi, migliore di quei maledetti “capi di Stato”, gente che era lì per ragioni nobili, per dire cosa non va nel mondo in cui mio figlio, ma anche le tue due figlie, dovranno vivere. E avete colpito queste persone mentre dormivano, inermi... Perfino la Mafia ha un suo codice d’onore. E voi no.
Margherita, la cognata batteva dietro la porta dello studio urlando:
– Piero, lascia in pace mio marito. Lui è un poliziotto, stava lavorando. Apri questa porta.
– Hai sposato un mostro, Margherita. Stai buona. L’hai visto in tivù a tirare i calci contro la testa del ragazzo che stava seduto sulla strada con le mani alzate? Che ne pensi, Margherita? Credi ancora che stava “lavorando”?
– Apri la porta, Piero.
Il poliziotto cercava di avvicinarsi piano piano alla porta. Ignorando le richieste della cognata, Piero spintonò nuovamente il fratello contro la veneziana.
– Vieni, ora picchia me, dai... Forza. Vieni. Perché non provi di fare con me, qua, ciò che avete fatto ai bambini?
– Ora basta. Piero! Vai via. Sei impazzito.
– Stronzo... Manda un messaggio ai tuoi colleghi fascisti. Digli che non tutti i genitori sono come il padre del ragazzo ucciso in piazza. Uno depresso come un cane bastonato. Qualcuno reagirà, difenderà i suoi cuccioli a qualunque prezzo e a qualunque rischio. Hai sentito bene? E non mi darò pace fino a che non vedrò ognuno di voi dietro le sbarre. Puoi scommetterci. Il tuo “assaggio di Gestapo” è finito. E ricordati: da ora in poi tu non ce l’hai più un fratello. Da ora in poi hai un nemico. E non ci parliamo più.
Prese il lume stile inglese da sopra la scrivania e lo schiantò tra i piedi del poliziotto. Poi aprì la porta dello studio, guardò la cognata attonita negli occhi e disse:
– Consiglia tuo marito di andare subito in pensione. Sarà meglio per tutti.
E mentre lei entrava nello studio sottosopra, Piero già scendeva le scale a precipizio. Il tassì lo aspettava con il motore acceso.
Antenne
Il mondo, lo vedeva sempre dall’alto. Dalle terrazze dei palazzi dove installava le antenne televisive, quelle tradizionali e le paraboliche della ditta di cui aveva appena ottenuto la rappresentanza.
Ma quelle maledette antenne non rimanevano mai ferme al loro posto, e dopo due o tre giorni, puntando all’occhio del satellite, al primo colpo di vento lo perdevano di mira e tutti i televisori del condominio diventavano scemi, inguardabili. Vendeva a basso prezzo quelle antenne scadenti, ma poi doveva lavorare il doppio.
Salì in ascensore al sesto piano e in fretta, prima che imbrunisse, scalò i gradini che conducevano al terrazzo di quel palazzo rosa e giallo, sul mare.
Sbucò sulla superficie piana di cemento grigio e vide il suo cappellino degli Yonkers volare via verso il bordo e poi giù, sulla strada laterale. Scorse in fondo alla terrazza il piccolo bosco delle antenne, gli alberelli secchi di metallo senza foglie né frutti, e i dischi bianchi delle paraboliche, oscillanti come i robot impazziti dei cartoni animati.
Guardò l’orologio, un quarto alle sei. Aveva promesso dalla sua fidanzata di passare da lei prima delle sei e mezzo, per andare a vedere una cucina in offerta per il loro nuovo appartamento.
Fece l’ultimo gradino, poi un passo, poi un secondo, e prima di fare il terzo aveva già capito che doveva cercare di ritornare al buco della scala a causa del vento fortissimo, e che non sarebbe stata un’impresa facile. Fatto un passo laterale, e poi un altro, capì che sarebbe stato impossibile, e nel panico del momento cercò di buttarsi a terra, ma tutto ciò che gli riuscì fu di perdere la valigetta degli attrezzi. Costretto a un terzo passo laterale, più largo, e ad avvicinarsi così pericolosamente al bordo della terrazza, prese per istinto il telefonino nella tasca della camicia e schiacciò il tasto di selezione rapida numero uno. Prima che gli rispondessero, il vento lo spinse un altro metro più in là.
– Pronto.
– Amore, sono io. Ascoltami bene. Fra un minuto sarò portato via dal vento e precipiterò dal sesto piano di un palazzo, e non c’è niente che possa fare per evitarlo. Allora non dire niente e ascolta.
– Cosa?
– Stai zitta. Abbiamo fatto l’amore ieri sera e anche stamani, quindi se smetti con la pillola oggi stesso, potrai avere un bambino mio e mamma ti aiuterà a crescerlo. Ascolta. C’è un sacco di soldi dentro il mio armadio, in fondo agli stivali neri di gomma sotto il giornale accartocciato. Hai capito?
– Ma no! Ma cosa...
E il vento lo spostò ancora di un metro. Ad un passo si alzava il muretto della terrazza di meno di venti centimetri di altezza.
– Stai zitta e ascolta! Dì a papà che il mutuo è assicurato contro sinistri come questo, che lui deve andare in banca accompagnato da un avvocato, e che l’appartamento dev’essere intestato a tuo nome.
– Oh Dio! Ma cosa...
– Stai zitta! Dì a mamma che l’amo da morire e che dev’essere forte. Ora non ce la faccio più. Sii forte anche tu, amore mio! Ti amo tanto! Ma che ca-
Ed era quella una bellissima giornata, il sole attraversava impassibile l’azzurro pulito e faceva brillare tutte le cose.
1) Le ragioni del "naufragio"
R- Se per "naufragio" ti riferisci alla mia migrazione in Toscana (citando Leopardi allora direi che "naufragare m’è dolce in questo mare"), le ragioni sono state, a suo tempo, ossia cinque anni fa, una combinazione di una storia nata Lisbona con una ragazza toscana (con cui poi mi sono sposato e ho avuto un figlio, Lorenzo, ma poi ci siamo separati) ad una profonda, irrimediabile, delusione nei confronti del destino del mio paese d’origine e del mio probabile destino personale se avessi continuato laggiù per più tempo.
2) Il mito della Toscana
R – La Toscana è mito, è storia, ma è anche realtà. È senz’altro uno dei migliori posti al mondo per vivere: gente civile, clima mite, arte dappertutto, bellissimi paesaggi, e tutto a misura d’uomo. Ho avuto ormai la mia overdose di iperattività metropolitana, a Rio de Janeiro, a Parigi, a New York... Credo che bisogna sperimentare almeno una volta nella vita questa intensità moderna, se non per altro, almeno per assaggiare le onde frenetiche della contemporaneità. Ma poi basta. Non si può vivere per sempre in mezzo all’isteria urbana. La Toscana è un punto d’arrivo ideale per chi ha già fatto la sua parte nelle megalopoli.
3) La sindrome di Itaca
R – Si tratta indubbiamente di una tragedia personale sempre più frequente, e accade soprattutto a quelli che sono partiti da società troppo dinamiche, come quella brasiliana. Se passi, diciamo, dieci anni lontano dalla tua città, e poi torni, non riconoscerai più niente e nessuno. Però, questo accade anche se uno ci rimane, se non parte mai. La Niterói della mia infanzia aveva 50 mila anime, oggi è al centro di una "conurbazione", con 2 milioni di abitanti. Già prima di questo mio esilio in Europa, camminavo per le strade del quartiere dove sono nato e ho passato l’infanzia, Icaraí, per ore ed ore di seguito, e non riconoscevo più nemmeno un volto. Era come se fossi ad Istambul o ad Islamabad.
4) La mia patria è la mia lingua
R – Ha detto questa frase con grande consapevolezza il poeta Fernando Pessoa. Ed è vero. Però, si può cambiare patria... e lingua. O almeno aggiungere nuove patrie e nuove lingue, e prenderle come proprie. L’essere umano è sempre "in allestimento".
5) Dove vuoi morire? Dove vuoi essere seppellito?
R – Ma chi ha detto che voglio morire? No, non lo voglio mica, e non me ne importa dove! Ma, va bene, se dovrà succedere, magari dopo il centenario dell’arrivo dell’uomo su Marte, non è male la Toscana per "riposare". D’inverno è un po’ freddina però.
Per chi ne vuole sapere di più www.sagarana.net