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Tornare avanti: quasi un'intervista con Enzo Cei

15-04-2014

"Come fotografo che si occupa di fotografia narrativa, mi interessa raccontare l'uomo, raccogliendo pezzi di realtà dentro le storie che non fanno notizia; portare alla luce quanto non ha in sé piena visibilità, offrire domande, scavare coscienza.
E' in fondo vedere.
Per questo ho scelto la quotidianità, quella del lavoro, della tecnologia, dell'arte, del costume e delle problematiche sociali quali ambiti privilegiati per identificare in essi la vita, riaffermando la centralità della persona che nelle più diverse condizioni non cessa di esercitare conoscenza e curiosità, energia e forza interiore, dedizione e dignità.
E' una ricerca che si accompagna al recupero di quelle radici che la tradizione vuole restituite sotto forma di linfa vitale per nuovo conoscere, rigenerata appartenenza, rinnovato attaccamento."

La carriera di Enzo Cei è cominciata per accidente, ovvero con un incidente: un brutto taglio a un dito, un lungo periodo a casa, l'occasione per dedicarsi finalmente con calma anche alla stampa, in una camera oscura allestita in un sottoscala e fare così, da autodidatta, i primi passi sulla sua strada.
Me lo racconta mentre camminiamo per i campi dietro a casa, in quella campagna che rischia già di diventare periferia; dietro alla sua villetta c'è una casa che fu contadina e ci fermiamo a parlare sull'aia.
Anche se lui è nato in altre zone, pare la perfetta ambientazione della sua storia di figlio di mezzadri che lavoravano nella campagna pisana.
" Devo stare attento a non intonacarmi" mi dice, "anzi, vorrei ritirare fuori i mattoni, le pietre".
Ci riesce: è un uomo scabro, chiuso all'inizio, dolce nel sorriso quando si fida dell'amicizia. Prima bisogna guardare, e bene.
" Ho assistito inconsapevole alle storie della mia famiglia", mi racconta, con lenti pudori.
Non c'è niente di quella retorica sulla cultura contadina che fa solo chi non ci ha vissuto. Ma c'è tutto il senso della dignità, senza affettazioni, senza troppi discorsi.
Mi parla del suo lavoro sul tema della Comunicazione e di altri progetti. Nei corsi che tiene scoraggia gli allievi: "Io posso insegnarvi poco, le cose dovete comunque scoprirle da soli".
Non ci credo, specie dopo aver passato un pomeriggio con lui in camera oscura, su una foto "facile". E sì che mi aveva detto che sono le foto più rappresentative quelle difficili da stampare.

"I contrasti devono essere netti, bisogna prendere delle decisioni. Quelli più vivaci vengono da giornate di luce violenta: vanno dominati perché ci sia presenza di dettagli anche nelle parti bianche, quando servono".
Per schermare muove dei bacchetti come un direttore d'orchestra. Sembrerebbe già fatta, ma nel paesaggio che sta stampando c'è un viottolino, un dettaglio in un angolo. Me lo indica e dice: "Se non si vede bene non si capisce che dove va ci può essere una storia".
Ha le sue avversioni: ce l'ha coi grigi slavati, privi di carattere. Io penso all'episodio famoso di un negativo di Romano Cagnoni che ha viaggiato per l'Europa, a Londra e Parigi, dagli stampatori più bravi, per finire in questa camera oscura nella casa di Enzo a Tempagnano, fino a raggiungere il risultato che Cagnoni cercava: era la foto di un malato di mente.
"C'è il dovere di rispettarlo anche nelle tonalità che gli assegni", dice Enzo, e a me tornano in mente le parole di Pier Carlo Santini in "Cavatori":
"Se dovessi indicare qual è l'aspetto che nella fotografia di Cei domina sugli altri, o dicasi altrimenti qual è il tratto più costante della sua visione, parlerei di una pietas accorata assolutamente indenne sia da flessioni roboanti e retoriche, sia da qualsiasi scadimento nel facile quanto esteriore populismo". (pg.22)
Del suo libro una volta Enzo mi disse: "Pensa, il mio album di famiglia votato libro fotografico dell'anno".

Intanto usa come pennelli di luce delle maschere con dei forellini che si è fatto. Io che di tecnica sono felicemente ignaro osservo l'armonia alchemica del gesto. Ma lui butta un altro foglio nel cestino: "Non puoi ingannare te stesso", scuote la testa ridendo. "Non mi si addicono le stampe tranquille, magari... debbo sempre complicarmi la vita".
Mi spiega ciò che cerca: "le ombre, in fondo, mi portano dentro. È importante mantenere lo sguardo all'interno della foto. Sono la profondità dei neri che fanno certe parti luminose".
Io, psicologo, penso a certi processi dinamici nel fondo della psiche e scopro analogie illuminanti che non dico, perché voglio ascoltare. Mi piace questa scontentezza esigente ed ironica, "quando sei al settimo, ottavo foglio e non ne vuoi sapere".
Ricordo Raymon Carver e Francis Scott Fitgerald, che riscrivevano anche dieci volte un breve racconto. Ricordo i mille bozzetti di Guttuso per "La Vucciria".
Questo accade in camera oscura, ma so anche della stessa ostinazione nel cercare l'immagine, o nel lasciare che l'immagine lo trovi.
Parliamo degli otto anni di frequentazione delle cave: "un anno ci andai poco, mi era nato un figlio", si rammarica. Non deve essere facile essere figlio o moglie di Enzo.
"La nostra fatica qui c'è tutta", disse un cavatore di Levigliani, vedendo il libro. È un commento che vale dieci recensioni, credo. Ma per arrivare a questo bisogna avere mangiato assieme alla mensa, dormito in cava, sentito il freddo delle Apuane.
"Ciò ti permette, se la foto c'è, di salire sulle spalle di uno per farla. È la necessità dell'istante". Parliamo della tecnica: "è la preparazione dell'atleta per quell'unico momento in cui si salta l'asticella".
Penso a quale miscela di rispetto e di rapacità c'è nella sua foto di reportage. "Ma non si va con la macchina al collo e bisogna anche avere la dignità di lasciarla nella borsa".

"Tornare avanti". È una frase che mi risuona, letta da qualche parte. Ci ripenso mentre, a buio, lascio Enzo e me ne vado a casa.


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