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Laura Romano: Il palazzo bianco

15-04-2014

Il palazzo bianco

C’era una volta una foresta di viti e forse non era proprio una foresta, forse era un vigneto, ma per la piccola Nadia era il mondo più oscuro e misterioso che si potesse immaginare: fresco, verde, nascosto.
Quando andavano là, lei e la sua amica del cuore Francesca, erano al sicuro. Nessuno poteva vederle. Era il loro nascondiglio segreto.
Il campo di grano era un po’ il contrario: l’avventura, il caldo, il sole. Tutto giallo e scricchiolante, pieno di grilli e forse anche coi serpenti, diceva Cornelia, la mamma di Nadia. Se il vigneto era la pace, il campo di grano era sempre la battaglia.
Nadia era bellissima con quelle guance rosse e così sode che non si riusciva neppure a pizzicarle, i capelli neri, lucidi e diritti, la frangetta, le trecce grasse e il sorriso di luna sul viso tondo tondo.
Francesca era la sua amica del cuore e veniva dalla città. Si adoravano ed erano una per l’altra l’immagine perfetta di quello che ciascuno di loro due sognava di essere. Nadia era forte, solida, sapeva di terra, era vestita con colori mai abbinati e portava abiti di misure stranissime, sempre o troppo grandi o troppo piccole. Per Francesca Nadia era la piccola indiana, pellerossa, la squaw silenziosa che lei sognava di essere o di essere stata in un lontano e misterioso passato: il colore della pelle, le trecce, ma soprattutto l’odore quell’odore di erba e di terra di cui certo sapevano gli Indiani d’America e le loro donne. Poi c’era il fatto che Nadia sembrava non parlare quasi mai; eppure diceva sempre tutto. Lei non raccontava di casa, non scherzava della gente, non diceva della famiglia e degli amici, così diversa dalla sue compagne di scuola sempre così cicalecce. Nadia parlava proprio pochissimo, quasi mai, tranne, quando raccontava la storia favorita di Francesca.
Francesca, invece, era una tipica bambina di città: aveva la pelle liscissima, un po’ pallida ed era vestita sempre con classica eleganza. Sembrava uscita da un quadro dell’800: già aveva quel volto così classico e poi la sua mamma la vestiva volentieri di velluto e merletti, con camicette dai colletti rotondi, i colori sempre perfettamente abbinati e la pettinava coi capelli tirati su ai lati. In quel modo assomigliava proprio a quel famoso ritratto del Pinturicchio, la “Damina dal nasino in su”, aveva detto una volta la sua maestra delle elementari. E così fu da allora in poi. Francesca era dolce, delicata e romantica, una madonnina, come le dicevano spesso le zie, ma dentro, in realtà il suo cuore era selvaggio, sognava di scalare gli alberi più alti, di essere tutta sola nel deserto o su spiagge deserte, di vivere in un circo a piedi scalzi e di essere un’indiana pellerossa o una zingara nomade. Nadia, d’altro canto, forte e robusta e così un po’ grezza, era invece delicatissima dentro, l’anima di una principessa e sognava di camminare con scarpette di cristallo in un palazzo tutto bianco che stava sulla cima della montagna più alta del mondo. Quante volte si raccontavano i loro sogni, quante volte avevano giocato a fare le fantasie, quante volte: “...dai adesso ne faccio una io...” e via a galoppare sulle nuvole.
Avevano 8 o forse 9 anni. Nadia amava la natura, specialmente la terra e le mucche e Francesca anche. Nadia aveva la nonna più bella del mondo, dagli straordinari occhi accesi di azzurro; Francesca era la cocca della nonna Giovannina, la nonna più perfettamente nonna del mondo, una nonna da fiaba con l’uncinetto, lo scialletto sulle spalle e tutto il resto, perfino la crocchia di capelli grigi un po’ bassa sul collo. In comune, inoltre, avevano il fatto di credere alle favole, contrariamente alle loro sorelle sia maggiori che minori. Francesca ne sapeva molte di più, probabilmente perché a lei avevano letto e regalato molti più libri. Comunque la sua fiaba preferita rimaneva sempre quella di Flip-Flop, le due ciabatte di plastica verde e di quando entrarono nel Palazzo Bianco raccontata da Nadia. Ogni estate Francesca non aspettava altro che risentirsela raccontare dalla voce un po’ roca della sua piccola amica contadina. La gioia più grande, l’eccitazione più incontenibile era quella di andarsi a nascondere in fondo al vigneto (quello dell’uva nera) là dove la strada di terra faceva quella grande curva al di là del recinto, dopo aver giocato per ore nel campo di grano a nascondersi, a trovarsi, a toccarsi, a rotolarsi nell’erba.
Nadia aveva il viso acceso e caldo, la pelle un po’ ruvida che a Francesca piaceva accarezzare sulle mani e sulle guance. “Tutto in lei brilla”, pensava Francesca ogni anno, “la mia piccola amica indiana con le ginocchia sporche e le mani screpolate improvvisamente tra un po’ racconterà – la voce grossa e un po’ roca che sembra venire da lontano. E Nadia raccontava di nuovo, piano piano, con i gesti delle mani e con i movimenti della testa imitando un po’ la sua nonna, Teresa, e forse anche tutte le bisnonne e trisnonne del passato.
Cera una volta un paio di ciabatte di plastica... “ah, che schifo” – fa Francesca che odia la plastica. Nadia tiene il fiato sospeso e aggiunge ridendo “verdi” perché sapeva che quello era un colore che a Francesca proprio non piaceva. La prendeva in giro ogni anno così, senza capirla e capendo tutto e ogni anno Francesca reagiva sorpresa e disgustata all’idea di queste due ciabatte, che erano di plastica e che erano verdi... e giù a ridere come pazze...! L’eccitazione era fortissima per il piacere di stare insieme, per la voce roca, per la pelle ruvida di Nadia, ma forse soprattutto perché la storia di Flip-Flop e del Palazzo Bianco era poi una storia d’amore, un po’ come Cenerentola, ma senza le persone era più divertente e più facile per Nadia immaginarsi l’invisibile principessa del Palazzo e per Francesca la zingara misteriosa che forse un dì aveva dimenticato lì le sue vecchie ciabatte.
“Dai, piantala, racconta, racconta... che tra un po’ viene buio e la nonna ci viene a cercare”. E Francesca già la sapeva tutta la storia, ma questo per i bambini, si sa, non è uno svantaggio, anzi il piacere ne è raddoppiato perché è come esserci già dentro nella storia e come tornare in una casa segreta.
C’era una volta un palazzo che veniva chiamato il Palazzo Bianco. Un palazzo come ce ne sono pochi ormai. Era un palazzo come si deve, con le sue torri e i suoi saloni, grande e austero, inavvicinabile e solitario. Il Palazzo Bianco aveva una sua personalità, delle sue idee forse un po’ all’antica, ma quel che è certo è che era di animo nobile. Aveva letto che ne sud est asiatico vi era un’isola dove costruivano i palazzi con il cuore. L’aveva letto su una rivista dimenticata da uno degli ultimi visitatori. Là sì che i palazzi erano davvero rispettati: venivano fatte cerimonie a tutti i punti cardinali e offerti fiori nel punto centrale del palazzo che era appunto il cuore e veniva chiamato “il grande interno”. Ah! Come doveva essere bello nascere in quell’isola!
Si diceva che erano centotré anni che nessuno entrava più a Palazzo. Si raccontava che dentro fosse tutto bianco e che le pareti erano soffici e profumate e avessero perfino dei sapori...
Qui la fantasia delle bambine si sbizzarriva a raccontare delle grandi stanze ognuna con un profumo, ognuna con un sapore. Nadia andava piano, paziente e saggia, mentre Francesca si intrometteva di continuo, scalpitante per arrivare alla sua stanza preferita, quella della panna montata che sapeva di cannella ed era soffice come una nuvola... La stanza più attesa da Nadia era invece quella rosso chiaro, quella che aveva il colore e il sapore delle amarene, il suo frutto preferito, così difficile da trovare nel suo villaggio e il cui sapore era forse il più delicato che esistesse. Ma le amarene crescevano nella mezza montagna e al suo paese faceva troppo caldo. Inoltre la stagione delle amarene dura meno di un mese e Nadia aveva assaggiato amarene solo due volte in vita sua.
Nadia raccontava delle meraviglie del palazzo, delle grandi stanze, dei soffitti altissimi, del salone delle danze che era tutto affrescato con la storia della vita del Palazzo fin dalla nascita, la storia delle sue gioie e dei suoi dolori. Nadia spiegava che non si sapeva bene cosa fosse storia e cosa leggenda e raccontava come dentro il Palazzo Bianco fosse tutto dipinto sui toni del bianco: bianco chiaro, bianco scuro, bianco latte, bianco burro, bianco panna, bianco ghiaccio, bianco acqua, bianco neve, bianco uovo, bianco luna, bianco bianco, bianco luce...
Comunque una cosa proprio non era sicura, e cioè se fosse storia o fosse leggenda che nella torre più alta vi fosse un uomo vestito dei colori della terra tenuto prigioniero, pietrificato proprio lì sulla porta. Si raccontava che fosse stato punito per non essersi tolto le scarpe entrando a Palazzo. L’uomo veniva dalla strada, probabilmente dalle montagne. I suoi modi forse non erano proprio raffinati, non era abituato ai limiti di proprietà, né ai limiti in generale. Abitava nell’ambio spazio della natura e così successe che la prima casa che incontrò sul suo cammino fu proprio un palazzo... il Palazzo. E cosa ne sapeva lui? Lui che di porte non ne aveva nemmeno mai vista una... Non ebbe neppure un istante di esitazione, entrò – o almeno pensò di entrare – e tac eccolo lì bloccato sulla soglia, così da chissà quanti anni.
C’era comunque qualcosa di strano in quel palazzo e nessuno si rese conto esattamente di cosa fosse per secoli, finché un giorno qualcuno notò che il palazzo non aveva in realtà né porte né finestre. Tutti improvvisamente se ne accorsero ma nessuno si ricordava se fosse sempre stato così o meno. Questo tuttavia non cambiò gran che la situazione, né lo stato del palazzo. Ci fu un po’ di scalpore, ma poi, come spesso succede in questi casi, dopo un po’ la gente finì di stupirsi, finì di pararne, si abituò e il palazzo rimase ancora per secoli solitario e silenzioso.
Spesso vi si fermavano intorno curiosi, a volte turisti, a volte i bambini della zona. Era lì che nascevano storie e leggende, che crescevano e si trasformavano passando di bocca in bocca. Chi diceva di aver visto un uomo scendere dalla torre più alta con un mazzo di rose bianche in una notte di luna calante; chi giurava di aver visto un grande portale schiudersi al tramonto; chi una finestra illuminata a mezzanotte. Nessuno credeva alle storie di nessuno, ma tutti sospettavano che si potesse essere qualcosa di vero e così la gente andava avanti a raccontare e ad ascoltare.
Poi, un giorno, un bambino che passeggiava di là notò un paio di ciabatte infradito di plastica verde che se ne stavano lì davanti a d dove avrebbe potuto esserci un portone. Tornò il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Le due ciabatte sembravano cambiare un po’ di posizione, ma erano sempre lì, così, semplici e un po’ infossate, con un’aria molto vissuta e un nonsoché di umano. Anche loro proprio come il Palazzo, sembravano avere un cuore, forse un’anima, tanto che il bambino un bel giorno si fece coraggio e chiese: “Ma voi chi siete?”. “Siamo due ciabatte girovaghe. Ci chiamiamo Flip-Flop e stiamo aspettando qualcuno. Pare che ne avremo per un po’. Siamo andate in giro dappertutto a cercare i piedi del nostro padrone; sono centotré anni che cerchiamo e direi che questa volta ci siamo, a giudicare dalle impronte... che si vedono nell’aria...”. “Ma come, il vostro padrone sa volare?” “Sì, una volta, a volte”, risposero loro con aria nostalgica.
E qui Nadia che era sempre scalza, si alzava e camminava pesantemente sul terreno umido lasciando belle impronte ben definite e Francesca si toglieva regolarmente le sue scarpette di pelle blu, vi infilava dentro le manine e faceva grandi gesti come a imprimere nell’aria le impronte dei suoi piedi, decantando con tono drammatico: “Oh, dove saranno mai i miei piedi? Dove siete andati, o piedi miei? Oh piedi, bei piedi, chi è la ciabatta più triste del reame?” E poi rideva, rideva eccitata dall’improvviso movimento e dai suoi giochi, mentre Nadia, seria e compresa, pestava sul terreno con quella stessa stabilità e costanza di suo padre, Remigio, quando pigiava l’uva nel tino.
Il bambino prese l’abitudine di ritornare ogni giorno a chiacchierare con le misteriose ciabatte verdi. Avevano l’aria morbida e un po’ opaca, ed erano diventate gradualmente per lui un amico segreto. Erano davvero due tipi molto interessanti. Raccontavano del mondo e di tutte le strade che avevano percorso e conoscevano strani giochi come “salta e spruzza” e “tirami su”. Spesso parlavano del loro sogno segreto, quello di saper volare proprio come un tempo sapeva volare il loro padrone. E allora il bambino si inteneriva, se le infilava una in una mano e una nell’altra e faceva: “vola-vola” e correva, correva a perdifiato tutt’intorno al palazzo urlando a squarciagola: “vola, vola, vola, vola...”. “Basta, basta”, gridavano le povere ciabatte “Ci fai star male, ci gira la testa, basta, non ce la facciamo più, mettici giù”, senza tuttavia sapere bene neppure loro se fosse troppa la paura o troppo il piacere. E il bambino continuava felice a correre ancora un po’, inebriato da una strana felicità, ché quasi quasi anche a lui sembrava di volare. A sera tornava a casa e non raccontava a nessuno delle sue avventure, tanto chi gli avrebbe mai creduto? Andò avanti così per un po’ di settimane, finché un giorno, con sua grande sorpresa e disappunto, il bambino non trovò più le sue ciabatte ad aspettare al loro solito posto. Cercò tutt’intorno, tra l’erba e tra i cespugli, dietro gli alberi. Niente. Scomparse. Cos’era successo? Forse che Flip-Flop, stanche di aspettare, fossero riuscite ad entrare? Certo sembravano delle tipe molto particolari e probabilmente avevano qualche facoltà magica... ma se non c’erano né porte né finestre nel Palazzo, come era possibile entrare? Forse l’uomo della torre di cui la gente parlava? Forse qualche altro dei loro trucchi? Una metamorfosi? Un’illusione? Mistero!
Il bambino girava attorno al Palazzo in cerca di una spiegazione. Guarda in su, guarda in giù, siediti e aspetta, pensa un po’... niente, nessuna spiegazione. Dove erano andate a finire Flip-Flop?, chiede Nadia a Francesca. “Le hanno rubate!”. “No” “Sono scappate spaventate da una tigre!” “No” “Hanno giocato a tirami su e non sono più venute giù!”, “Fuochino” “Si sono trasformate... in gabbiani” “mmm...” “Beh, allora sono volate via?”
Passano due oche, canta un gallo, si stira un gatto nel sole, cade una prugna. Le due bambine si distraevano coi meravigliosi piccoli accadimenti della natura intorno a loro.
“Guarda, una coccinella ti è volata sul naso”. “E a te una grossa formica rossa ti sta passeggiando sul collo”.
Il cielo cominciava a diventare rosato, mentre le nuvole si stiravano fino a non avere più essenza. L’atmosfera era sottile e per un attimo tutto rimase sospeso e qualcosa nell’aria cambiò.
Francesca guardò Nadia preoccupata: per Flip-Flop, per il cielo che si fa scuro, per Nadia che... non si sarà mica dimenticata? No, impossibile, Nadia si ricordava sempre anche se a volte cambiava qualche dettaglio. Il fatto è che Flip-Flop si erano ricordate di un’amica russa che, in occasione di un momento particolarmente difficile aveva loro detto: “se sei davanti a un muro da superare e non c’è la porta, disegnala!” E lo sai tu, Francesca, come fanno adesso Flip-Flop a disegnare? E Francesca faceva quella sua faccina tra l’ingenuo e il furbetto, mezza madonna e mezza bambina di strada, quella faccia di chi lo sa benissimo, ma non vuole darlo a vedere.
Tutte le ciabatte infradito di plastica del mondo – raccontava allora con enfasi Nadia – conoscono una danza sacra molto antica, ereditata dagli alberi della gomma dell’Indonesia. Il problema è che, come molte delle antiche tradizioni, anche questa è andata perduta, è stata dimenticata e non è facile rievocarla. Ma Flip-Flop non erano delle comuni ciabatte e in Indonesia loro vi erano state a lungo e avevano imparato l’arte della rievocazione... Fu così che si sedettero (si fa per dire) in una particolare posizione a punte incrociate e entrarono in uno stato di profonda meditazione che durò per ore, forse per giorni, finché a un certo punto una misteriosa forza che veniva dal profondo si impossessò di loro e cominciarono a danzare la danza sacra della gomma.
Questo era il momento più atteso della storia per Francesca che adorava ballare e per Nadia che poteva riposarsi un po’ e godersi la visione della sua bella amica che con le scarpe in mano danzava l’antica danza magica, intonando una melodia ogni anno più esotica e più incomprensibile. Francesca veniva come posseduta da una misteriosa e straordinaria energia e danzava immaginando i movimenti di un grande fuoco, persa in un’estasi celestiale. Poi, all’improvviso, si fermava, sopraffatta e stupita dal miracolo e tratteneva il fiato. Era il segnale per Nadia di ricominciare a raccontare e infatti immancabilmente lei diceva: “... e improvvisamente nel muro apparve lentamente disegnato da un’invisibile matita un grande portone!” Flip-Flop s’inchinarono piene di rispetto e come in un soffio il portone si aprì. Tremarono d’emozione infossandosi un po’, ristettero per un attimo e poi piano piano entrarono nel Palazzo con il cuore in un tumulto. Immaginate un po’ essere un paio di ciabatte di plastica verde ed entrare in un palazzo tutto bianco in cui nessuno ha messo piede da centotré anni! C’è di che svenirne! E infatti le nostre povere Flip-Flop si sentirono tutto girare intorno, pensarono di perdere i sensi, sembrò loro quasi di non toccare più terra... ed ecco che invece... oh, meraviglia... stanno davvero... volando!
“Ooohh” fa Nadia che di solito non si sbilanciava mai in esclamazioni del genere, ma che a questo punto perdeva anche lei un po’ il controllo e la timidezza, perché era anche il suo sogno segreto quello di volare, bruna rondine nel cielo. Francesca a sua volta tratteneva il respiro, aggrappandosi a un ramo basso del pruno quasi per paura di volare via anche lei...
Oh gioia, oh magia, o ebrezza... era come se... no, impossibile descrivere quella sensazione... E poi il Palazzo, il Palazzo che anche lui aveva un cuore, che stava per soffocare in quella bianchezza perfetta, tra i profumi che non riconosceva neppure più. Quale liberazione anche per lui! Volavano, volavano davvero le verdi ciabatte. In su, in giù, in tondo, in quadrato e volando sfioravano le pareti e scoprivano che quelle erano morbide e che bastava una piccola spinta con la punta per aprire una finestra qua e una porticina là.
E fu così, che volando in perfetta felicità, Flip-Flop aprirono una porta dopo l’altra, una finestra dopo l’altra.
La gioia e la commozione erano al massimo e il Bianco Palazzo tremava tutto, facendo sbattere come grandi occhi le nuove finestre appena aperte e scuotendo la vite rampicante a mo’ di splendida chioma.
Quanto tempo! Sembrava un secolo... e infatti lo era, un secolo e tre anni, senza né porte né finestre, con solo la luce bianca dei suoi muri. Ora era la luce del sole e più tardi sarebbe stata quella della luna che entrava dentro di lui. Tutte quelle stanze non sarebbero mai più state così sole. Entrava l’aria e tutto diventava come per incanto più morbido; entrava il sole e tutti quei bianchi si coloravano di nuove bellissime tinte; entrava la luce della luna e i profumi diventavano più veri. Volavano, volavano Flip-Flop nello spazio profumato, inebriate da questa sensazione inenarrabile, dalla dolcezza dell’aria, dalla sofficità delle pareti e dalla bellezza interiore di quel grande palazzo bianco sconosciuto e all’apparenza così inconoscibile.
L’aria era densa della felicità di entrambi, il Bianco Palazzo e le verdi ciabatte. Quale privilegio, pensavano entrambi, che incontro fortunato, quale prodigio, quale magia! Ebrezza, gratitudine, stupore, commozione.
Flip-Flop guardarono giù dalla finestra per salutare il bambino che con occhi sgranati assisteva al miracolo. Centinaia di luci diverse, colori nuovi e profumi sconosciuti riempivano l’aria.
“Avete trovato i piedi del vostro padrone?” chiede da sotto il bambino.
“Ah, ancora un po’ ce ne dimenticavamo. Grazie per avercelo rammentato. No, non ancora, ma ce ne sono ancora così tante di porte da aprire, di stanze da liberare...”
“Forse il tuo padrone è prigioniero nella torre...”
“Sì, forse, forse. Ma se tu sapessi che meraviglia volare. Il sogno della nostra vita si è fatto realtà grazie a questo Palazzo Bianco.
Flip-Flop erano instancabili e poi come era diverso volare da camminare: prima di tutto non ci si affaticava e poi non ci si sporcava; niente pozzanghere, niente terra che ti si appiccica sotto le suole.
Sembravano infinite quelle sale, ce n’era sempre un’altra, con un altro colore, un altro profumo, un altro sapore, un’altra forma. Si aprivano porte e finestre ovunque e non si capiva se le stanze fossero davvero già tutte lì, semplicemente prigioniere dei propri muri, o se erano Flip-Flop a creare via via più spazio disegnandone loro stessi di nuove volando e toccando così. Infatti chissà quali e quanti erano i reali poteri dell’antica danza sacra della gomma…!
A un certo punto improvvisamente qualcosa cambiò. La luce diventa un po’ meno luminosa, l’atmosfera un po’ più compatta, i profumi un po’ solidi e il volo di Flip-Flop sembrò farsi un po’ più pesante, mentre diminuiva anche il senso di euforia. “Siamo in alto” pensano in un lampo Flip-Flop, “siamo vicino alla torre”. Una forte emozione le pervase e un odore un po’ dolce di terra le avvolse insieme ad una indescrivibile sensazione di qualche cosa di già vissuto. Dove? Quando? Questo odore, questo senso di interezza, questo calore morbido… nel cuore. Quasi senza accorgersene, con estrema dolcezza Flip-Flop avevano atterrato lì a terra, ma com’era tutto davvero diverso: senso di solida sicurezza, di contatto, di base. Era bello e dolce anche essere lì… a casa.
Così Flip-Flop ricominciarono a camminare, antica, conosciuta sensazione. Prima piano piano, come un po’ provando, sulle punte, sui talloni, un po’ di lato, avanti, indietro, a destra, a sinistra. Sì, si sentivano veramente diverse, sembrava loro di essere come più agili, più leggere, più felici… ma certo, avevano imparto a volare e da adesso tutto sarebbe stato diverso, perfino camminare.
A questo punto della storia sorgeva quasi sempre un grande senso di intimità e di solidarietà tra le due bambine, qui ancora in sospeso nella storia quasi finita, ma forse ora anche un po’ stanche. Nadia si era da tempo sdraiata tra le foglie secche e i chicchi d’uva caduti, usando quella vecchia ruota del trattore del nonno come cuscino. Si sentiva sicura di sé, era padrona della situazione, era lei che raccontava. Francesca, a questo punto, si sentiva invece piccola piccola e bisognosa di conforto, si avvicinava a Nadia, le toccava un po’ la gonnellina e finiva poi timidamente con lo sdraiarsi anche lei, rinunciando al candore della sua camicetta e appoggiando la testa su una gamba di Nadia. Forse era perché stava per apparire il primo vero essere umano, un uomo, forse era perché anche lei come Flip-Flop aveva bisogno di toccare terra, di contatto e sicurezza, fatto sta che adesso Francesca si sentiva piccola e debole e non ce la faceva proprio a starsene sulle sue. Guardava dal basso verso l’alto Nadia che, compresissima, non si lasciava commuovere e procedeva sicura verso la fine della sua storia.
“Era questa l’ultima stanza?” Si domandarono Flip-Flop. Ma l’ultima prima di cosa? Camminavano piano piano e ancora un po’ sotto shock a causa della diversa dimensione di realtà, che si sa Aria e Terra non hanno la stessa personalità, né le stesse caratteristiche.
Percorrendo il perimetro di questa sala si accorsero che era rotonda, sì, che strano, tutta rotonda, senza un sotto e senza un sopra, senza destra e senza sinistra. Era come una palla, il dentro di una palla… - e Nadia faceva un grande gesto maestoso nell’aria e con le sue manine grassottelle disegnava nell’aria una grande sfera. Sì, quella stanza era come una grande palla e Flip-Flop vi camminavano dentro in lungo e in largo, di sopra e di sotto. Non vi era un angolo, né uno spigolo, non c’era né principio né fine, non vi erano né porte né finestre. Da quando Flip-Flop avevano smesso di volare nessuna porta, nessuna finestra si era più aperta. Che fosse finito l’incantesimo? Che fosse finita la magia? La stanza era rotonda e vuota, di un colore rosa cipria quasi trasparente. Le superfici delle pareti erano soffici e lisce quasi come di porcellana. Avvicinandosi per toccarle Flip-Flop si resero conto che le pareti erano in effetti trasparenti quando ci si andava molto vicino… ecco perché non vi erano finestre! Non ce n’era bisogno: quel muro rotondo era tutto una grande finestra e Flip-Flop guardando giù potevano vedere chiaramente gli alberi, l’erba, il fiumiciattolo poco lontano e il bambino, che forse un po’ stanco, si era addormentato sotto un albero. Là Flip-Flop si sentivano protette, vedevano senza essere viste e tutto era ovattato e silenzioso.
Ma dov’era l’uscita o l’entrata? Dove andare ora? Flip-Flop ripresero pensierosi a camminare piano piano: in su, in giù, a destra, a sinistra. Però non vi erano più direzioni qui nella stanza rotonda. Ogni punto era il centro, sembrava proprio un posto dove non fosse possibile prendere decisioni. Decisero così di non decidere nulla semplicemente.
E Francesca per tirarla in lunga: “tralalalalala, tralalalalala…” canticchiava muovendo aritmicamente i piedi nell’aria senza neppure tirarsi su per paura di perdere quel punto così comodo della gamba di Nadia.
E passeggia, passeggia a un certo punto la punta sinistra di Flip-Flop incontrò qualcosa di più leggermente soffice, come una cunetta di erba alta con una piccola infossatura al centro. Spinsero un po’ più a fondo e plop si trovarono dall’altra parte. La sensazione fu più che altro quella di avere fatto una capriola ed ecco che raddrizzandosi si trovarono di fronte ad una porta. Era una porta semplice fatta a vetri con gli stipiti in legno dipinti color nocciola ed era aperta. Nel bel mezzo vi stava stagliato, immobile quasi che fosse un quadro, un uomo di corporatura robusta, alto quasi quanto la porta. Una forte luce veniva da dietro di lui. Se ne stava lì, messo di tre quarti guardando verso sinistra in modo tale che il suo viso in controluce era nell’ombra. Si trovava lì sulla soglia, come sul punto di entrare ma immobile, apparentemente pietrificato. Sulla spalla destra aveva un sacco mezzo pieno che teneva forte con la mano destra e in testa portava un vecchio cappellaccio. Era vestito con una tunica morbida di colore marrone. Si sentiva che era buono, o almeno questa fu la prima impressione che Flip-Flop ebbero quando si presentò loro davanti quella apparizione improvvisa. Tutt’intorno nell’aria vi era un odore dolce e forte di terra. “Un odore così” diceva Nadia pasticciando la mano nella terra per poi passarla sotto il naso di Francesca, la quale inspirava estasiata, forse esagerando un po’ come di sua natura.
Cosa vi facesse lì, fermo sulla porta quell’uomo e bruno non è certo, come del resto ancora rimarrà un mistero se fossero poi i suoi, i piedi in questione. Quello che si sa è che Flip-Flop gli schiacciarono delicatamente un alluce e, come per incanto, l’uomo si girò, guardò giù, pose a terra la sua sacca, si tolse il cappello, si infilò Flip-Flop ed entrò in quella parte che portava alla torre.
Il Palazzo Bianco ruppe il suo silenzio, una musica sottile e dolcissima risuonò ovunque, il bambino giù nel prato si risvegliò e cominciò a danzare impugnando due rametti di ciliegio. Tutt’intorno la natura sembrò fremere di gioia perché finalmente il re era entrato nel suo palazzo e il palazzo aveva il suo re.
A questo punto Francesca e Nadia si alzano all’unisono e, in piedi una davanti all’altra facendo una profonda riverenza fino a toccarsi con la fronte, sussurrano in tono solenne: “Maestà….”

Del Palazzo Bianco si racconta che da allora fu sempre pieno di luce e di profumi delicati e del re che fu un buon re. Flip-Flop erano spesso con lui, a volte ai suoi piedi, a volte al suo fianco, a volte tra le dita delle sue mani per insegnargli di nuovo a volare e a volte in bilico sulla sua testa a giocare a “se io fossi una corona”. Flip-Flop stavano bene là: ottima compagnia quel re e quel palazzo… ma si sa Flip-Flop sono poi gente abituata a viaggiare, abituata alla strada, un po’ ribelli di natura. Così, forse per un po’ resteranno, forse se ne andranno spesso per lunghe camminate nell’aria e sulla terra e forse un giorno chissà se ne voleranno via lontano lontano. Ma questo appartiene al futuro e non fa parte della nostra storia.

“Bambine, bambine, Francesca, Nadia” è la voce della nonna di Nadia, Teresa, che chiama per la merenda… “Presto che altrimenti si raffredda tutto…”
E Francesca correva per le fette di polenta abbrustolita, per il calore del fuoco e per gli occhi azzurro cielo di nonna Teresa. Nadia prende tempo, cammina piano perché sa che Francesca andrà prima dalla nonna Giovannina che le dà un piatto grande con un tovagliolo di lino bianco, sempre lo stesso da sempre, un po’ rotto ma della misura giusta e con le iniziali ricamate in un angolo.
“Va piano, che se no cadi” raccomandava la nonna mentre Francesca già stava entrando nella cucina un po’ fumosa di nonna Teresa: profumo di legna e sapore di buono e lei là, come una regina con il grembiule a quadrettini blu e neri, con gesti attenti e sicuri apriva il tovagliolo, vi appoggiava in bell’ordine otto fettine di polenta abbrustolita e ricopriva il tutto con cura.
“Vieni, Nadia”. Piano, piano, attenta a non inciampare, Francesca fa strada verso la casa della nonna Giovannina la quale intanto già aveva messo il latte sulla tavola e tirato fuori il burro dalla ghiacciaia.
Le bambine si siedono al grande tavolo di marmo della cucina. Francesca pende una fettina di polenta, con la punta del coltello fa un taglio lungo e stretto e ci infila dentro un pezzetto di burro che subito si scioglie per il calore… Che momento… se lo ricorderà per tutta la vita… Un morso alla polenta e un sorso di latte caldo appena munto da Remigio…
Fuori comincia a fare scuro e la cucina è già quasi buia a causa della vite rampicante che copre a metà la finestra. L’aveva piantata il nonno facendo un po’ arrabbiare la nonna… lei lo sapeva già sin dall’inizio che un giorno avrebbe tolto luce alla stanza… Quella vite rampicante la nonna la detestava, ma adesso che il nonno non c’era più non aveva il coraggio di tagliarla… era la vite rampicante del nonno.
“Ma dove siete state tutto il pomeriggio?” chiede la nonna “quasi non vi ho sentite…” Nadia un po’ incerta guarda Francesca che prontamente risponde: “Siamo state a Palazzo, al Palazzo Bianco dove nessuno era entrato da 103 anni… finché un giorno… oh nonna, sapessi…
“Va bene, va bene” dice nonna Giovannina, che è si molto buona, ma a volte un una tino brusca, “finite la merenda prima che freddi”.
Le bambine mangiano con gusto intingendo le fettine di polenta e bevendo piano piano perché duri di più, il latte caldo, la polenta abbrustolita, il burro che si scioglie, la nonna che le guarda… Oh Signore, ti prego fai che non finisca mai…


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