15-04-2014
Billie non si chiama Billie, il suo vero nome è Annunziata.
Le è sempre piaciuto cantare, me la ricordo nel coro della parrocchia che era alta così, stava in prima fila, nelle voci bianche. Io il coro lo dirigevo, ma non avevo voce, neanche allora, lei invece si sentiva sopra tutti gli altri.
“ Annunziata, canta piano” le dovevo dire sempre, perché nel coro quel che conta è l'insieme, nessuna voce deve sparare.
“ Canta piano, Annunziata” e lei cantava piano, ma diventava tutta rossa, per lo sforzo. Gli altri diventano rossi per farsi sentire, invece.
Nel coro c'è cresciuta, lei e la sua voce. Cominciò a fare qualche solo, ma tutte le volte un po' mi pentivo di aver scelto lei, perché la sua voce era la più calda, la più potente, ma non era giusta. La sentivo e mi prendeva l'ansia, c'era troppa musica dietro le sue note.
Cercavo di educarla, di togliere quello che era di troppo, gli acuti che sembravano arrampicarsi su gradini di niente, le note basse che rimestavano stagni fangosi.
Annunziata imparava, controllava la sua voce, soprattutto per poter cantare i duetti con Maurizio. Erano fidanzatini.
Nunziata faceva progetti con me. Studiavamo insieme i pezzi per il coro. Lei cantava da mezzo soprano, ma poteva arrivare alle note più alte del soprano e poi giù, fino al fondo del contralto, come voleva.
Finiti i pezzi andavamo a passeggiare sulla spiaggia, ci baciavamo tra le barche dei pescatori, mi faceva vedere come la voleva, la nostra casa. Era ragionevole, non indicava mai le ville più belle.
La riaccompagnavo a casa prima che facesse buio.
Poi, quand'era notte, lei usciva dalla finestra e andava là. Con l'autobus. Lo prendeva due, tre fermate più avanti, per sicurezza. Nessuno la vide mai. Là aveva un camerino, si cambiava. Dopo l'ho visto, il vestito che si metteva. Rosso, scollato. Mi hanno detto che si metteva anche dei guanti fino al gomito, neri.
Diventava Billie. E cantava. Sola sul palco, con un pianoforte e un contrabbasso, cantava in mezzo al fumo, tra uomini e donne che avevano due, tre, quattro volte i suoi anni e andavano lì per bere, per chiacchierare, per trovare qualcuno per la notte, e invece ascoltavano lei, smettevano di chiacchierare, la cenere si allungava sulle sigarette, mentre Billie cantava con la voce che le veniva fuori, senza frenare qui e controllare là, la sua voce che faceva rizzare i peli sulle braccia, o venir voglia di piangere.
Poi apriva gli occhi, usciva dalla sala, si cambiava, andava a dormire. Nessuno se ne accorse. Ma a scuola cominciò a prendere qualche brutto voto.
Mi mostrava ancora la casa dei nostri sogni, ma di Billie non mi parlò mai.
Sapevo che stavo sbagliando. Tante volte pensai di parlarne a qualcuno, magari a Maurizio. Ma aveva troppa fiducia in me e nel nostro futuro…
“ Mauri, canto in un night” e lui avrebbe cominciato a ridere, perché io ero quella che cantava nel coro, se non sparava, e forse -dico forse- un giorno il coro lo avrebbe diretto.
Era sbagliato quello che facevo, lascia stare, mi dicevo, hai il coro, hai Maurizio, ti sposerai, avrai i tuoi bambini, lascia stare, è pericoloso… Era pericoloso: uscivo di notte da sola, raccontavo bugie per spiegare i brutti voti, la faccia assonnata.
Al Gatto nero girava di tutto, cominciai a sniffare coca. Dovevo resistere. La coca cancellava i dubbi, le paure, cancellava la stanchezza. E io potevo stare lì sul palco, nella poca luce velata dal fumo, tirare fuori dalla pancia la voce, e la canzone si cantava da sé con la mia voce, e tutti lì intorno erano immobili, non parlavano, non respiravano, fino a quando la canzone non finiva e loro ed io eravamo leggeri e pieni di anima.
Dopo mi sentivo stanca, risucchiata. Senza coca non avrei resistito così a lungo. Durò un anno, tre mesi e quattro giorni. Poi una notte mi collassai. Mi risvegliai in ospedale quarantasei ore dopo. Aprii gli occhi e vidi mia madre.
Quando si risvegliò mi misi a piangere… che stupida, vero? I medici avevano detto che non era in pericolo, ma ormai pensavo che tutto poteva succedere. Due giorni a carezzarle la mano, a spiare il suo respiro, e non capivo, neanche oggi capisco, ma l'importante è che ora sta bene.
Quando squillò il telefono stavamo dormendo, erano le due meno sette minuti. Andò a rispondere Franco, “sarà uno sbaglio, a quest'ora” borbottava, poi però non tornava. Lo trovai vicino al letto di Nunziatina, sotto le coperte c'erano dei cuscini, lui era bianco come marmo. Per noi, per me, lei era la mia bambina, la mia Nunziatina, ecco guardi, porto sempre con me la sua foto, qui aveva undici anni, guardi come era carina, col suo montgomery rosso, lo aveva voluto lei, rosso, a tutti i costi, ma di solito non faceva capricci, dava retta, era tranquilla… con la passione per il canto, sì, fin da piccolina. Che emozione, la prima volta che ebbe un solo, io mi sentivo il cuore in gola, ma la mia Nunziatina, piccola com'era, non le tremava neanche la voce. E cantava Bach!
Quando aprì gli occhi le dissi “amore, non ti preoccupare, sono qui, non ti succederà nulla, ora arriva anche papà”, lei mi guardava con gli occhi spalancati, senza parlare. Le dicevo che non ero arrabbiata per quel locale, ora era finito, io e papà eravamo con lei, le dicevo “ti voglio bene, piccolina, ti vogliamo bene”, ma Nunziatina faceva solo sì con la testa, non diceva nulla.
Dopo il collasso rimasi in ospedale per un po'. Dovevano fare degli accertamenti. Perché io non parlavo più. Cercavo di parlare, ma non veniva fuori nulla. Solo movimento di labbra.
Venivano a trovarmi, anche Maurizio. Ma siccome io non potevo parlare, anche loro un minuto dopo non sapevano cosa dire, si sentivano a disagio, e se per caso si decidevano a monologare, finivano sempre a dirmi che ora avevo capito, no?, che sbaglio avevo fatto, ma insomma era passato e avrei messo la testa a posto. E Maurizio mi avrebbe sposato anche muta. Preferivo quando restavano zitti.
Intanto gli esami avevano accertato che non c'erano cause organiche, forse una debolezza delle corde vocali, ma i medici non sapevano neanche loro cosa dire. Potevo provare con la rieducazione. Mi immaginavo a compitare balbettii. Meglio restare muta.
La vedevo tutti i giorni, davanti alla vetrina andava su e giù con passi lunghi, pieni di rabbia. Sapevo che sarebbe entrata, prima o poi.
Entrò un pomeriggio di fine dicembre, aveva nevicato e lei portava un paio di scarpe da tennis di tela, rosse, zuppe di neve.
“ Vieni a scaldarti i piedi, togliti le scarpe”.
Scosse la testa, però si mise a slacciarle. Aveva i piedi blu. Li guardò con stupore: non aveva avvertito il freddo.
“ Che cosa cerchi?”
Alzò le spalle, con un gesto indicò l'orecchio, poi la stanza in giro. Stavo ascoltando The man I love.
Quella ragazza aveva un fuoco dentro, ma non sapeva cosa farci.
Una voce così,se non sai stare salda sui piedi e sulle gambe, ti porta via. Nel mio negozio vendo dischi e CD, e se ho voglia insegno anche a cantare. Comincio dai piedi: distanti un palmo o poco più, ben aderenti a terra, le punte leggermente convergenti. Sono importanti i piedi. Poi passo alle ginocchia. Ma i più smettono dopo la seconda lezione. Billie venne ogni giorno, per mesi e mesi. Quando ebbe gambe robuste, anche la voce tornò.
Vuoi sentire il suo cd?
Anna Vezzoni è nata e vive in Versilia. Insegna lettere presso il Liceo scientifico di Viareggio, dove cura anche il laboratorio teatrale. Ha pubblicato un libro di racconti, "Anime d'ali strappate". Suoi racconti sono usciti su riviste cartacee ed in rete.