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Disturbo borderline di personalità

26-10-2019

Convegno della Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’. 
Un intervento al confine. Dialogo fra psicoterapia, medicina e sociologia.
Firenze, 26-27 ottobre 2019

Pier Claudio Devescovi

Sindrome borderline e post modernità 

Ho una formazione come Sociologo e come Psicoanalista jughiano. Probabilmente per questa doppia provenienza Andrea Bocconi mi ha chiesto se mi sentivo di fare una relazione sui rapporti fra sindrome borderline e clima culturale, una relazione fra Sociologia e Psicoanalisi. Ho accettato molto volentieri e lo ringrazio. Questo lavoro che presento è in effetti un lavoro a 4 mani con Camilla Albini Bravo. Il tema del titanismo e quello del vuoto, in particolare, sono temi della sua ricerca da molti anni.

In ambito junghiano un autore apprezzato per il suo pensiero è Schwartz-Salant, un medico e analista junghiano che ha scritto alcuni importanti saggi sulla sindrome borderline e sul narcisismo. In un suo saggio egli afferma che: “La vita della persona borderline è strettamente collegata al problema del tempo” (1), frase che tiene presente anche quello che afferma Jung stesso ne La Psicologia dell’Inconscio: “La nevrosi è strettamente collegata al problema del tempo e configura propriamente un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in se medesimo il problema generale” (2). Ed ancora nella sua autobiografia Ricordi Sogni e Riflessioni dove afferma: “Un problema collettivo, fino a che non è riconosciuto come tale, si presenta sempre come un problema personale, e in certi casi può dare l’impressione errata che qualcosa non sia in ordine nel dominio della psiche personale. Effettivamente la sfera personale ne è disturbata, ma disturbi del genere non devono necessariamente essere primari, possono benissimo essere secondari, conseguenza di un mutamento intollerabile nell’atmosfera sociale” (3, p. 282)

Queste affermazioni suggeriscono la possibilità di un rapporto fra patologia individuale e aspetti della cultura di un dato periodo storico, operazione del resto non nuova: l’isteria è stata in più occasioni messa in relazione con la cultura vittoriana dell’Europa ottocentesca. Così pensiamo si possa tentare un collegamento o mettere comunque in luce assonanze fra la sindrome borderline, sempre più presente nel nostro lavoro clinico, e alcuni aspetti della cultura che stiamo vivendo.

Nella lingua inglese il termine borderline si riferisce a linea di demarcazione, confine. Il termine usato dagli autori anglosassoni per questa forma di psicopatologia rimanda necessariamente al problema dei confini. Anche se in passato è stata talvolta considerata una “diagnosi cestino per i rifiuti”, né nevrosi, né psicosi, io credo possa essere definita, anche, come “malattia dei confini” e nel mio intervento terrò presente questo modo di intenderla.

Questa “sindrome dei confini”, che immagino non si siano chiusi e definiti al momento giusto, riguarda la distinzione fra i tempi (fra il passato, il presente e il futuro), fra le persone (tra i figli e i genitori), fra gli umani e gli oggetti e, ancora, tra gesto e parola e fra l’Io e gli altri complessi.

Per tentare un accostamento e mettere a fuoco qualche forma di relazione fra la sindrome borderline e il tempo che abbiamo vissuto e che ancora viviamo, ho scelto due date che mi sembra si riferiscano ad alcuni importanti aspetti che caratterizzano il tempo attuale che possiamo definire di post-modernità. La prima, comunemente indicata come “il ‘68”, comprende il periodo che va dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso al decennio successivo ma che comprende, secondo me, anche gli inizi degli anni ’60, il periodo del boom economico.

È ampiamente condiviso il giudizio che il fenomeno più importante del ’68 sia stato la lotta contro i padri. Se è vero che i padri pre-68 erano in larga parte autoritari e incapaci di un dialogo, è altrettanto vero che, dopo averli abbattuti, la generazione dei figli non è riuscita a costruire un’immagine di padre autorevole e aperta all’ascolto. Avendo avuto padri che possedevano già le risposte, i figli non sembrano essere stati capaci, a loro volta, di essere padri senza risposte ma pur sempre padri in grado di avviare i figli verso la propria, ancor sconosciuta, verità. Semplicemente hanno taciuto e sono diventati, per non perdere il contatto coi loro figli, dei “mammi” o anche degli amici dei loro figli.

L’altra data che mi è sembrata importante ai fini di questo discorso, è il periodo fra gli ultimi mesi del 1989 e i mesi successivi del 1990 che videro la caduta del muro di Berlino. La gente andava a vedere, attirata da un evento che percepiva carico di significato e di emozione. Si ebbe la sensazione della definitiva conclusione della 2° guerra mondiale con la fine della sua coda, la guerra fredda. 

Ma oltre a questi aspetti la caduta del muro ha determinato anche la sensazione di perdita di confini netti, ben definiti, la distinzione fra amici e nemici, o comunque fra alleati e avversari e la perdita del sistema simbolico costituito dal mito del comunismo che rappresentava un punto di riferimento e dava un senso di appartenenza anche a larghi strati della popolazione e a molti intellettuali in occidente. E non vi è stata a questo proposito la presenza e la proposta di un nuovo senso di appartenenza nell’Europa unita che non è riuscita e non riesce a tutt’oggi a costituirsi anche negli aspetti simbolici e mitici.

Credo che questo evento possa aver contribuito alla crisi delle ideologie e, assieme all’altra data che ricordavo, il ’68, a una certa messa in crisi del concetto di autorità.

Non è la prima volta, ovviamente, che cadono muri o che assistiamo a uno scontro generazionale e ogni evento del genere comporta conseguenze sul piano della cultura e dei rapporti nella società civile, comprese le forme del disagio psicologico. Oggi noi, terapeuti, ci troviamo spesso di fronte a situazioni a struttura liquida dove i confini fra realtà, desiderio e sogno sono confusi. I comportamenti, gli atteggiamenti, i valori prevalenti sembrano caratterizzarti da aspetti titanici. La domanda quindi che ci dobbiamo porre è perché le conseguenze di questi eventi assumono aspetti titanici invece che, ad esempio, depressivi o schizoidi. Per rispondere a questa domanda ho bisogno di spiegarvi cosa intendo quando dico “titanico”, soprattutto come Camilla Albini Bravo intende e utilizza questa immagine.

Rafael Lopez Pedraza, in un articolo apparso nel 1987 (4) ci introduce all’immagine dei titani. Egli, commentando il fatto riportato da Kerenyi che non ci fossero rituali né culto per i titani e che quindi non erano definiti come gli altri dei da culti, rituali, altari, afferma: “I tempi titanici possono vedersi come un periodo di transizione fra l’uomo primitivo e l’uomo colto, civilizzato, un periodo durante il quale non esisteva né il rituale né il culto dell’uomo primitivo, né l’immagine antropomorfa ben definita dell’uomo molto colto e religioso” (4, p. 67). Egli colloca così, psicologicamente parlando, il tempo titanico in una posizione borderline tra il prima e il dopo la cultura, comunque in un tempo che ha a che fare con le origini e con una dimensione originaria di non riflessione.

Una coscienza governata da uno stile titanico è una coscienza che non ha limiti, non solo nel senso di confini e di aree di proibizione del desiderio, ma anche nel senso di confini come perimetro, confini come linea che, delimitandomi, mi definisce come identità. Stiamo quindi parlando di una dimensione che ha a che fare con un illimitato desiderio ma anche con una disperata dispersione di identità. Il vuoto titanico risulta insopportabile proprio per la commistione di questi due elementi. Non è solo un vuoto d’oggetto ma anche, soprattutto, un vuoto di sé e questo è insopportabile. Una paziente di Schwartz-Salant affermò in seduta: “Ognuno cerca di aiutarmi, tutti i miei amici sono preoccupati. È che non ho un’identità. Non ho nessun senso di me stessa” (1, p. 47).

Kerenyi, nel saggio Gli Dei e gli Eroi della Grecia, (5) descrive i titani come non soggetti ad alcuna legge e per i quali non esiste né ordine né limite, dominati da una spinta all’eccesso. E se noi proviamo a immaginare che Kerenyi stia descrivendo non solo delle figure mitologiche ma anche degli assetti psichici, degli stili di coscienza che appartengono alle nostre origini, allora dobbiamo ammettere che il titanismo, come possibilità innata in ognuno di noi, sia collegato a un intollerabile senso di vuoto e a una spinta irresistibile all’agito. Mi rendo conto che sto descrivendo qualcosa di simile alla tossicodipendenza.

Interessante, per il nostro discorso, è tenere presente alcuni degli elementi cui Lopez Pedraza collega il titanismo psichico perché sembrano rappresentare bene il nostro tempo: l’eccesso e il vuoto contrapposti all’immagine e al sentimento. “Questi pazienti – prosegue Lopez Pedraza – sono incapaci di creare un’immagine (…) e quando manifestano ciò che si potrebbe chiamare immagine questa non viene accompagnata da emozioni o sentimenti psichici allora da questa immagine non viene alcuna creatività” (4, p. 70)

Tale modalità di funzionamento non è presente solo nei singoli pazienti che incontriamo nel Servizio Pubblico o nei nostri studi privati, ma sembra essere uno stile di pensiero collettivo che rende difficile l’uscita da questa modalità irriflessa dove predomina l’agito inconsapevole e l’illimitato desiderare. La mancanza di riflessione, cioè l’assenza, nel mio rapporto col mondo, dell’immagine di me in rapporto col mondo è uno degli elementi costitutivi del titanismo.

Questo mi sembra un punto importante che vorrei chiarire meglio. Non vedere me in rapporto col mondo determina l’incapacità di vedersi, di avere una riflessione su me stesso e se non ho l’immagine di me non ho neppure il sentimento, la consapevolezza di me. Posso avere l’oggetto, nell’illusione di avere me stesso ma si tratta, appunto, di un’illusione perché è l’immagine che mi manca. Quando la pubblicità propone un’auto super potente, il cosiddetto titano la compera, non in quanto auto ma in quanto potenza, ma non avendo un sentimento di sé non trova la potenza ma semplicemente l’auto. E la ricerca ricomincerà all’infinito perché per sentirsi potenti bisogna “sentirsi”. L’equivoco è che per sentirsi potente non devi cercare la potenza ma devi cercare il sentimento di te, che potremmo anche chiamare “Identità”.

Jung, nel Libro Rosso, Edizione Studio, afferma che “Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo (…) Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà ma non ritroverà la sua anima perché solo dentro di sé la potrebbe trovare (…) La potrebbe trovare nel desiderio stesso ma non negli oggetti del desiderio (…) perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione (…) La ricchezza dell’anima è fatta d’immagini. (6, p. 17).

Nella situazione che sto cercando di descrivere credo abbia avuto un ruolo importante anche l’Economia che sembra si sia allontanata dal suo compito di scienza tesa a soddisfare i bisogni degli uomini e a creare e distribuire la ricchezza, per assumere aspetti titanici. L’economia è una scienza molto complessa di cui la psicoanalisi si è occupata, anche se finora un po’ marginalmente, con tentativi, a volte, di applicare lo strumento psicoanalitico all’economia nel suo complesso. Rimando volentieri a uno degli ultimi numeri della Rivista di Psicologia Analitica (7) che raccoglie articoli di economisti e di psicoanalisti su questi temi.

Della complessità dell’Economia sottolineerei due aspetti che mi sembrano avere caratteristiche titaniche. Il primo è legato alla sua trasformazione, che appare sempre più accentuata, in senso finanziario piuttosto che industriale. Questo aspetto è stato una delle cause della cosiddetta bolla immobiliare, nata negli Stati Uniti, e che ha innescato una crisi economica nel resto dell’occidente. Direi, in estrema sintesi, che ai grandi movimenti di denaro non corrispondevano i beni o il lavoro che il denaro rappresenta.

L’altro aspetto è legato al messaggio pubblicitario che l’economia ci presenta tutti i giorni e che sembra proprio ricalcare modelli titanici: non accontentarsi, volere sempre il massimo, sempre di più in una successione di messaggi che spingono all’acquisto, non legato necessariamente al bisogno ma più spesso alla necessità di colmare un vuoto, una mancanza e dove è sottolineato e incoraggiato, in modo più o meno esplicito, il superamento del limite. Messaggi che evocano il titano che è in ognuno di noi, soprattutto attraverso quelli che rimandano alla potenza, di cui parlavo poco sopra, al superamento dei limiti dell’età, all’annullamento degli aspetti della vecchiaia, in definitiva della morte. Fa tenerezza ripensare ai vecchi “Caroselli” dove veniva sottolineato il detersivo che lava più bianco o la cera per i pavimenti. Ora voliamo molto più in alto.

La possibilità dell’emergere di consistenti aspetti titanici è legata anche, a mio avviso, a una delle conseguenze del ’68, quella della lotta ai padri che ha determinato l’eclissi della funzione paterna. Su questo tema hanno scritto molti analisti famosi fra i quali Simona Argentieri, Luigi Zoja, Massimo Recalcati e altri.

Un recente saggio di Franco Lolli (8) evidenzia prevalentemente questo aspetto del ’68 le cui conseguenze stiamo ancora vivendo. Egli ricorda che uno degli slogan del ’68 era “Proibito proibire”. Questo slogan è stato ripreso, parafrasandolo, da Concetto Vecchio in un saggio sulla storia della facoltà di Sociologia di Trento cui ha dato il titolo “Vietato obbedire”, dedicandolo a suo padre. (9) Lolli fa risalire agli anni ’70 l’incremento delle situazioni borderline tale da porsi come fenomeno di rilevanza sociale.

Desidero introdurre un fatto di cronaca che mi sembra descriva quello di cui stiamo parlando. Il fatto è riportato dal quotidiano La Repubblica (cronaca di Firenze) del 22 febbraio 2013. “Pistoia: alcol e ragazzine sul cubo alla festa degli under 16. I più grandi avevano 16 anni, i più piccoli 13 (…) Una scena mai vista quella che si è presentata mercoledì sera ai poliziotti, ai vigili e ai finanzieri di Pistoia che hanno fatto irruzione in un residence del centro storico in cui si organizzavano festini a base di alcol (…) Stipati nella mini discoteca, tra luci stroboscopiche e musica a tutto volume, gli agenti hanno contato ben 230 minori di cui non pochi ubriachi. Il locale (…) sottoposto a sequestro per 3 mesi non era neppure in possesso dei requisiti per organizzare le feste: niente uscite di sicurezza, niente maniglie antipanico all’unica porta di accesso, niente autorizzazione a somministrare alcolici, nessun rispetto per le normative anti-incendio. A finire denunciati a seguito del blitz, il titolare del locale, gli organizzatori – due ragazzi di 13 e 16 anni – e perfino un genitore che li avrebbe supportati”.

In queste righe sono descritti molti degli aspetti che caratterizzano la nostra cultura attuale. In primo luogo l’abdicazione del ruolo genitoriale e della sua autorità di vigilanza sui minori. In secondo luogo la mancata interiorizzazione delle norme da parte del titolare del locale: fino a che qualcuno non le fa rispettare, le norme si possono tranquillamente trasgredire, anche al rischio dell’incolumità di 230 minorenni. In terzo luogo, se disgraziatamente fosse successo un qualche incidente, da una crisi alcolica acuta al diffondersi del panico con una ressa per uscire, ad esempio per un principio di incendio, quale sarebbe stata la reazione dei genitori? Sicuramente un rimpallarsi delle responsabilità e la difficoltà ad assumersi le proprie. In ultimo è necessario parlare dell’evanescenza dei limiti che questo episodio di cronaca ci pone sotto gli occhi.

Voglio aggiungere a questo un commento di Gabriele Romagnoli sull’arresto dei giovani responsabili della tragedia alla discoteca di Corinaldo (Repubblica, 4 agosto 2019, p. 4) dove descrive la loro condotta criminale: “La modalità quella di strappare i beni a coetanei o minori indifesi. Non c’erano né confine né limite. A Corinaldo hanno continuato ad agire anche mentre la tragedia era in corso derubando le vittime e i soccorritori”.

Lolli sottolinea un altro tema importante e cioè che “La società post moderna è caratterizzata dalla supremazia dell’immagine e più in generale dell’immaginario” (8, p. 34-35). Condivido questa analisi e penso che questa supremazia, che rappresenta un sintomo, possa essere al contempo una possibilità di cura solo a patto che possiamo distinguere fra vera immagine e falsa immagine.

Seguendo Jung, ma anche Winnicott, dobbiamo ricordarci che le vere immagini nascono dal profondo, individuale o collettivo che sia, e chiedono all’Io una capacità di silenzioso ascolto, direi quasi una meditazione, per poter esprimere la loro efficacia. Chiedono all’Io ascolto e rinuncia al desiderio che le vorrebbe in un modo o in un altro. Le vere immagini non sono appagamento di desiderio, quelle sono frutto di fantasie a occhi aperti, pericolosa dimensione di onnipotenza, come ci ricorda Winnicott che le definisce come “fantasticherie” accostandole alle psicosi. Le infinite immagini che abitano il nostro tempo, soprattutto quelle veicolate dall’arte, sembrano raccontare come la psiche cerchi di curarsi disperatamente dal titanismo chiedendo alle immagini di ricollegarsi ai sentimenti nostri e del mondo, a ri-animarci perché senza anima non riusciamo a vivere. Non intendo, ovviamente, il termine Anima in senso teologico o religioso, sto parlando di funzioni psichiche.

Una delle definizioni, forse più intense che Jung dà di anima è che essa è la funzione riflessiva della psiche, è il luogo dove si raccolgono le immagini attraverso le quali il nostro vivere acquisisce senso. Come ci suggerisce Lopez Pedraza, le immagini devono divenire sentimentalmente consapevoli. La cura è soprattutto nel riflettere su di esse.

Rispetto a quanto afferma Franco Lolli penso che sia necessario un padre-coscienza prima ancora di un padre-regola perché se è plausibile la lettura che ho proposto di una società caratterizzata dal titanismo, dobbiamo tenere presente che per il titano la regola è una sfida che innesca un comportamento, quasi automatico, tendente a infrangerla. Prima dell’Edipo, o comunque accanto ad esso, mi pare necessario il fondamento dato, attraverso l’uso e la consapevolezza delle immagini, al sentimento di sé.

Perché l’Io sia in grado di accettare delle regole deve, prima di tutto, esistere e la sua esistenza dipende dalla capacità di percepirsi secondo le 4 funzioni che Jung gli attribuisce: Io-sensazione, capace di percepirsi come corpo nel mondo, Io-sentimento, in grado di leggere le proprie ed altrui risposte sentimentali al mondo, un Io-pensiero, capace di pensarsi nel mondo e un Io-intuizione, capace di immaginare i cambiamenti che egli può fare nel mondo e quelli che il mondo può fare su lui.

Nella descrizione che Lopez Pedraza fa del vuoto titanico, particolarmente deficitaria sembra la funzione sentimento, tanto da svuotare di significato le altre tre funzioni. Quello che preme sottolineare è che l’efficacia di un’immagine che ci riflette e ci apre alla consapevolezza è data dal suo portato sentimentale.

Immagine e sentimento come cura del vuoto, letteratura e film come cure del nostro collettivo vuoto esistenziale titanico. 

 

Riferimenti bibliografici

(1) – Schwartz-Salant N. (1982) Borderline: visione e terapia, La Biblioteca di Vivarium, Milano, 1997 

(2) – Jung C.G. (1916-1942) La Psicologia dell’Inconscio, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983

(3) – Jung C.G. (1961) Ricordi, Sogni e Riflessioni, Rizzoli, Milano, 1965

(4) – Lopez Pedraza R. (1987) Sul Titanismo. Un incontro tra la Patologia e la Poesia, L’Immaginale, 8, anno 5, aprile 1987

(5) – Kerenyi K. (1984) Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano, 1984

(6) – Jung C.G. (2009) Il Libro Rosso, Edizione Studio, Bollati Boringhieri, Torino, 2018

(7) – Carrara S., Madera R. (a cura di) (2018) Psiche bene comune. Economia e psicologia del profondo, Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, vol. 98/2018, n. 46

(8) – Lolli F. (2012) L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, Mimesis, Milamo-Udine

(9) – Vecchio C. (2005) Vietato obbedire, Bur, Milano


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