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Psyche

Psyche

Psyche, dove attraccano le barche che portano psicologia nelle forme più diverse: lì si troveranno la psicosintesi di Roberto Assagioli e l'etnopsichiatria, l'antropologia e le psicologie altre.

Non si incontrano tanti veri maestri nella vita

02-03-2024

Corrato Pensa

Non si incontrano tanti veri maestri nella vita, uno era certamente Corrado Pensa, che fuori dai riflettori ha avuto un enorme impatto nella vita di tanti; era professore di Filosofia dell’estremo oriente alla Sapienza di Roma, psicanalista junghiano ma soprattutto insegnante di meditazione Vipassana. Aveva rinunziato alla psicanalisi, che pure praticava con passione, perché, spiegò, conducendo sessanta giorni di ritiri e seguendone anche di più come allievo non poteva seguire i pazienti come avrebbe voluto e dovuto. Mi colpì come per lui fosse ovvio fare l’allievo sempre per potere essere un miglior praticante. Ha fondato l’A.Meco, per diffondere la pratica della consapevolezza e ha raggiunto in molti decenni migliaia di allievi.

Nessuno può dire quanto questo lavoro sulla coscienza abbia avuto un impatto anche nel sociale, ma io sono convinto che lo abbia avuto. Aveva una sua severità rigorosa, che stemperava con un umorismo magari condito da una battuta in romanesco. Una volta parlando in un ritiro nel Centro Buddista di Pomaia, commentò la fuga di chi “col favor delle tenebre” si era recato all’elezione di una miss locale.

I suoi insegnamenti erano di una chiarezza esemplare, ho sempre pensato che avrebbero potuto essere sbobinati e stampato senza correzioni . Ci ha fatto conoscere tanti maestri della spiritualità di ogni tradizione e infatti ai suoi corsi partecipavano buddisti, cristiani, laici , agnostici e atei. 

Veniva invitato a insegnare in varie parti del mondo e ha scritto libri fondamentali, anche con Neva Papachritou, insegnante di meditazione e sua moglie. 

È raro trovare una mente affilata (nomen omen) e un cuore generoso, perché tutto ciò lo faceva per servizio. Un grande maestro non è un essere perfetto, ma si caratterizza per una profonda generosità gratuita, che non chiede all’allievo niente di più del suo impegno nella crescita personale.


Una fiammata di interesse per il carcere

06-02-2024

Una fiammata di interesse per il carcere, quanto durerà ? Poi tornerà, temo, ad essere rimosso dalle pagine dei giornali e dalle nostre coscienze. Aumenta il numero dei detenuti, aumentano i suicidi, ci sono carceri dove direttori coraggiosi , personale e volontari propongono alle persone detenute veri percorsi riabilitativi, fanno ciò che la Costituzione richiede.

Tra le proposte importanti, in Italia e in molti altri paesi c’è quella della meditazione:

Liberation Prison Project opera da venti anni in più di molti Istituti, prepara operatori selezionati. In un buon carcere , vedi Bollate, le recidive sono del 17 per 100, contro il settanta per cento medio. I costi anche economici di una cattiva politica carceraria sono enormi. I commenti di un Salvini, dettati dalla sua frustrazione elettorale e da calcoli penosi, esprimono un ignoranza assoluta , che strizza l’occhio al peggio di noi. Il reato di Rave party è assolutamente ridicolo, bastano le leggi esistenti, quelle che nascono dopo un episodio sono solo spot pubblicitari. Spessissimo sorprendo le persone riportando i dati del Ministero della Giustizio che mostrano un decrementp dei reati costante da venti anni, mentre ci vendono bugie e paure che favoriscono atteggiamenti autoritari.

Trasformare la coscienza è un lavoro lento, faticoso ed entusiasmante: si può creare un rapporto diverso con se stessi in primis, con gli altri di conseguenza. Conosci te stesso, era scritto sul frontone del tempio. Assagioli , fondatore della psicosintesi aggiungeva “possiedi, trasforma te stesso”. Corsi di meditazione hanno trasformato carceri enormi come Tihar, diecimila detenuti, in India. Si è insegnata la meditazione nel braccio della morte, negli Stati Uniti: oggi non è più una stranezza orientaleggiante da fricchettoni, la mindfulness ad esempio è entrata negli ospedali come nelle aziende, la ricerca scientifica ha prodotto miglia di articoli e libri che d ne dimostrano l’efficacia per il benessere psicofisico, e per la ricerca di senso, aggiung. L’ Università di Pisa, dipartimento di Psicologia, ha creato un master assieme a un centro buddista, l’Istituto Lama Tzong Khapa e produce ricerca seria, scienza dura, avrebbe detto Piero Coppo.

Noi siamo tutti in relazione, ce lo dicono la fisica, la filosofia, la psicologia, le tradizioni spirituali ; non possiamo semplicemente rinchiudere i nostri fantasmi, verranno fuori. Sui manicomi chi vorrebbe quelle scene infernali del passato ? La società civile ha integrato la legge Basaglia, là dove è stata davvero applicata, con strutture di accoglienza nel territorio 

Credo che tutte le scuole dovrebbero prevedere la visita in un carcere, l’incontro con le persone detenute, attività dove il dentro e il fuori si incontrano. Nel carcere di Arezzo diverse associazioni d volontari propongono teatro, scrittura , arti espressive , ma anche si occupano di fornire beni di prima necessità a chi arriva senza nulla. 

Nessun buonismo, ci sono reati e criminali che devono stare in carcere, perché sono un pericolo per se e per gli altri. ma per moltissimi non serve a nulla, anzi sappiamo che li peggiora. Esistono anche gli psicopatici, esistono mafiosi e camorristi . Resto convinto che l’ergastolo è incostituzionale, ma mi pare che trenta anni di galera potrebbero bastare, o paiono pochi ? 

Certo, se poi non si affronta il tema del lavoro per i detenuti e gli ex detenuti, non si è fatto nulla . Quindi occorre un intervento che miri alla dignità della persona detenuta e crei economia, profitto. Ma non quella dei carceri americani, con paghe di venti centesimi l’ora e sfruttamento. La sola ide della privatizzazione delle carceri è un obbrobrio. 


Conferenza Forlì "Confini" 18 febbraio 2023

18-02-2023

Conferenza di Andrea Bocconi al Gruppo di Psicosintesi di Forlì svolta sabato 18 febbraio 2023.

Conferenza Forlì


Come punire chi si laurea

06-11-2022

Con tutto quello che succede voglio segnalare una questione davvero piccola, ma Dio (e il diavolo) sta nei dettagli:  i giovani diventano adulti attraverso riti di iniziazione in tutte le culture. I passaggi da una fase della vita all’altra sono importanti e vengono riconosciuti tali e onorati. Nella nostra cultura ne sono rimasti pochi: uno sarebbe la discussione della tesi, alla fine di un percorso universitario. Si suppone che una facoltà di psicologia dovrebbe essere molto consapevole dell’importanza di un rito che sancisca e celebri questo passaggio. A Pavia , alla conclusione della laurea triennale in psicologia, ho assistito alla non discussione delle tesi, che peraltro non aveva mai comportato un contatto tra relatore e laureando, su un articolo da commentare e analizzare. Questa sarebbe stato al massimo un’esercitazione buona per il primo o il secondo anno, e se si chiede poco si svaluta già il percorso, e non si dica che per una “vera tesi" c’è la laurea magistrale. E chi non prosegue ?   C’erano quattordici candidati e la “cerimonia” è consistita nel chiamare sul palco i quattordici, leggere il  cognome e il voto di ciascuno  e pregarli di liberare il palco rapidamente e andarsene. Tempo della “ cerimonia”, che ha anche ovviamente un valore legale e viene fatta in nome della Repubblica Italiana, misurato sul video : due minuti e quattordici secondi, poi tutti fuori. Uno squallore. Una nota ulteriore di demerito sui voti: nell’estate, non so con quali motivazioni   è stato abolito il maggior punteggio di laurea per i trenta e lode e quello per chi si laurea in tempo: ti sei impegnato? Hai dimostrato a volte un apprendimento davvero notevole?  Un approccio originale al tema?!

“Hai fatto solo il tuo dovere”, sembra di sentir dire da pessimi educatori, che nel caso specifico nonn sembrano conoscere il valore del premio, anche simbolico.Non hanno studiato Skinner, a suo tempo . “Niente premi. Quattro punti di tesi è il massimo che puoi ottenere”.

Fuori  in piazza le famiglie e gli amici hanno fatto a loro modo una celebrazione, con tanto di corona di alloro che gli studenti avevano scelto e pagatp personalmente.

Complimenti ai professori del dipartimento di psicologia, che non hanno onorato in nessun modo gli studenti che hanno formato, svalutando il loro stesso lavoro.

 
Andrea Bocconi


Conferenza Forlì "Confini" 8 marzo 2022

08-03-2022

Conferenza di Andrea Bocconi al Gruppo di Psicosintesi di Forlì svolta sabato 8 marzo 2022.

Ascolta l'audio della conferenza (file MP3 - dimensione 7,3 MB).


Per me è l’autunno la stagione dei cammini

02-11-2021

Per me è l'autunno la stagione dei cammini

Mio zio Leopoldo amava la natura. Aveva pochi amici, di lungo corso,con cui in autunno faceva la gita del colore. Andavano in campagna a contemplare i gialli, gli amaranto, i sempreverdi, i tanti marroni, le foglie screziate. C’era una sola regola: si stava zitti. Per  questo le loro escursioni si chiamavano anche “la gita del silenzio”. Somma saggezza di mio zio e dei suoi due amici, sempre quelli. Quando si cammina in campagna, in montagna, ovunque in natura, lo si fa per riscoprire che ne facciamo parte, non stiamo guardando un documentario del National Geografic. Sul divano, con la tazzina di caffè, è bello condividere e commentare, in loco il commento spesso è superfluo, quando non è fastidioso. Si ammette un “guarda che bello”, basta che non sia seguito subito dal confronto su quel sentiero in Abruzzi dove andavi da bambino. Non parliamo poi di chi propone una riflessione sulle elezioni amministrative o  sulla questione no vax. Lì la mente si scinde dal corpo del tutto  e non si più dove si è, salvo inciampare o scivolare, brusco richiamo alla presenza  nella realtà. Per me è  l’autunno la stagione dei cammini, su facebook vedo tante foto di luoghi sconosciuti, a due passi da casa, spesso c’è anche la persona,e ha l’aria di star bene , a giudicare dai grandi sorrisi radiosi.

Viene voglia di andare, il difficile e mettersi in moto.Ci si prepara: dove ho messo gli scarponcelli ? pardon, scarpe da trekking. E quale zaino prendo ? Il glorioso da ottanta litri, veterano di mille camminate o lo zainetto scolastico ereditato dal figlio, meno tecnico ma anche pratico, non faccio mica il giro dell’Annapurna, vado in Casentino.

Il camminatore solitario si risveglia quando gli orsi si preparano al letargo, e mi sembra  ottima cosa non incrociarsi, bastano i cinghiali a regalare un po’ di sana paura.

Nel cammino ogni passo ha un sapore di verità: dice molto di noi . Anche io amo il silenzio: un’amica se ne accorse: tu ti lasci scivolare in fondo al gruppo che dovresti condurre, per non parlare.

Il battito del cuore regola il ritmo, non è una gara, non bisogna battere nessuno, neanche i tempi di percorrenza degli amati cartelli rossi e bianchi del CAI.

Certo è bello andare con qualcuno che a cui si vuol bene e nel cammino si scoprono cose nostre e dell’altro che ci  possono sorprendere: Martina a dieci anni si inerpicò per le montagna abruzzesi conducendo l’asina Eva, felice anche sotto la pioggia . Claudio Visentin,  prof di grandi dimensioni e fondatore della scuola del viaggio, aveva avuto l’idea:andiamo con i nostri figli maggiori e gli asini, una settimana di cammino ci farà bene. Aveva letto il  Viaggio di Stevenson nelle Cevennes, in compagnia di Modestine, un ‘asinella: lo scrittore aveva ventotto anni, una coperta e una pistola, non si sa mai. Quel libro lo fece conoscere e lanciò il turismo in questa area poco battuta della Francia: ci sono oggi itinerari stevensoniani.

Noi partimmo con  Martina e Pietro, dieci e undici anni, dopo un rapidissimo corso di guida asini.  Nel nostro piccolo, scrivemmo “In viaggio con l’asino”, e fu il libro di viaggio dell’anno.

Il cammino più bello  l’ho fatto in Casentino e nella Valtiberina, diversi anni fa : avevo voglia di solitudine e camminare nel parco di marzo  per un mese sembrava un’ottima premessa. Mia moglie Francesca mi aveva incoraggiato a farlo, specie dopo che un carabiniere l’aveva rassicurata che mi avrebbero ritrovato anche col telefono spento. Ai figli avrebbe pensato lei. In qualche misura andavo via proprio per loro: sono lucchese, e volevo conoscere meglio la terra in cui sono nati . Per conoscere un territorio, nulla è meglio che camminarci sopra. C’è una memoria dei piedi che non si cancella. Ero in quell’età in cui si sta bene, ma siamo fuori garanzia, specie per le parti usurate: ginocchia, caviglie, articolazioni in genere. E così, in quel marzo che sapeva ancora di inverno mi misi in cammino, dopo avere speso una fortuna in attrezzatura tecnica in un negozio specializzato di Firenze, dove il proprietario, detto Sedano non so perché, mi affidò vagamente disgustato a un amico competente, solo perché avevo proposto di portare il mio zaino valigia Invicta con cui avevo girato il mondo, non proprio adatto a un trekking.

L’itinerario era molto personale, volevo arrivare alle sorgenti dell’Arno e del Tevere,là dove è nata la nostra civiltà, poi scendere al Trasimeno e  passare dal Monastero delle Celle a Cortona, dove Francesco aveva soggiornato poco prima di morire. 

Tenevo un diario, che diventò un libro molto sentito, Di buon passo. Avevo previsto un mese di cammino solitario, grande garanzia di silenzio: un ritiro con me stesso, compagnia non sempre gradevole. Era bello montare la tenda nel bosco o nel portico di un palazzetto di un paese sconosciuto, nella bellezza aspra della montagna, nei pochi, significativi incontri.Ho sempre incontrato accoglienza e gentilezza verso il viandante, nessuna paura dell’estraneo. Voglio solo ricordare Chiara, la suora che mi ospitò al Cerbaiolo come pellegrino laico, anzi, “religione fai da te “, come mi inquadrò dopo una breve chiacchierata serale. Come tutti gli eremiti, era perseguitata dalle troppe visite: accompagnava i turisti a vedere le capre, per essere lasciata in pace: “ funziona sempre”, mi disse.Quel viaggio dell’anima l’ho raccontato in Di buon passo. Scrivere , che sia un libro o un nostro privatissimo diario, aggiunge spessore, consapevolezza e senso a ciò che abbiamo vissuto, lo rianima, e diventa un altro viaggio nel viaggio.


Quando chiude una libreria non nascono trenta potenziali lettori

12-09-2021

Quando chiude una libreria non nascono trenta potenziali lettori

La donna è magra, molto alta, veste con pantaloncini e una canottiera, ha molti tatuaggi. Arriva all’appuntamento in bici. I tatuaggi sono lettere aperte, o pagine di autobiografia: questi sono i tatuaggi di una libraia, che non fa più la libraia, ma vorrebbe farlo ancora. Si chiama Clara Patella. Aveva aperto la sua libreria nei locali della macelleria del nonno, nel centro di Altamura, a due passi dal Municipio di questa bella cittadina pugliese.

Giustamente si chiamava “Libreria Nuova Macelleria Patella”. Il nome mi aveva incuriosito e, visto che andavo ad Altamura per una settimana di scrittura con la Scuola del Viaggio, volevo visitarla. Ho una passione per le piccole librerie indipendenti, che spesso fanno scelte interessanti nei libri che propongono, nelle iniziative culturali che si inventano. Ne ho scritto più volte. Quando mi hanno detto che forse aveva chiuso sono andato a controllare: sì, non c’erano più libri, spiccavano le mattonelle bianche della ex macelleria. Un occhio vuoto nel muro.

Ha abbassato la serranda definitivamente (?) nel 2021, dopo quattordici anni di lavoro culturale, con mille invenzioni per tenersi vivi in una nazione come l’Italia dove le librerie, specie quelle indipendenti, sono sempre a rischio di estinzione. Al sud si legge meno che al nord e al centro, che comunque non brillano. I dati sulla lettura in Italia sono tra i peggiori in Europa e nelle piccole città si legge meno che nei grandi centri e nelle città universitarie. Quindi quattordici anni di lavoro sono tanti, un successo di per sé. Clara ha anche fondato una piccola casa editrice, già interessante dal nome, Caratteri Mobili.

Quando una libreria chiude è un lutto culturale per una città. Il colpo di grazia l’ha dato il lockdown, anche se Clara portava i libri in bicicletta a casa ai suoi lettori. Amazon ovviamente ha contribuito: i cosiddetti lettori forti, quelli che leggono un libro al mese e reggono le fragili economie delle librerie, si sono viziati: a loro piace ricevere il libro a casa il giorno dopo, come se si trattasse di un farmaco salvavita, urgentissimo, non possono aspettare i tre o quattro giorni che occorrono al libraio. Clara si arrabbia quando lo dice. Si arrabbia con una certa dose di amarezza quando osserva di non avere avuto clienti, neanche per un’occhiata curiosa in libreria, tra quelli che contano in municipio.

Si vede che appartengono a quel 57,6% che non legge neanche un libro l’anno, dati Istat del 2016, che credo siano migliorati leggermente. Quando a Clara è capitata l’occasione di un lavoro amministrativo nella scuola, ha dovuto scegliere. Ha due figli grandi che studiano. Per curiosità e per alleggerire l’atmosfera cupa della nostra conversazione le chiedo chi sono i suoi dei tra gli scrittori: Steinbeck, Faulkner, Bolano… lo dice indicandoli sulle braccia, dove sono nominati, o c’è una piccola frase di un libro. Ne ha anche uno sullo sterno.

Possiamo piangere sull’inevitabile ed essere bacchettati da Baricco come i nostalgici delle vecchie latterie? Proposta per il ministro Dario Franceschini. Forse potremmo fare qualcosa: le economie pericolanti sono state aiutate inventando per esempio gli Lsu, Lavori socialmente utili. A molti è stato concesso un reddito di cittadinanza. Mi pare indiscutibile che tenere aperta una libreria in un piccolo centro o in una periferia è un Lavoro socialmente utile. Perché non sostenere i librai che si danno da fare e non raggiungono un reddito dignitoso?

Su quel margine del 30% del prezzo di copertina gravano l’affitto, le spese, lo stipendio e anche lo sconto per i cosiddetti lettori forti, quelli che leggono almeno un libro al mese: basta poco per essere forti in questa contesa. Quando qualcuno fotografa un libro in vetrina per ordinarlo su Amazon è miope e taccagno, perché risparmierà forse un euro, ma non troverà più la vetrina: dovrà sorbirsi solo le offerte delle catene, che non proporranno mai i libri e gli editori di nicchia. E allora includiamo quello dei librai piccoli tra i lavori socialmente utili o qualcosa di simile. Studiamo una legge che ne eviti l’estinzione. Quando chiude una libreria non nascono trenta potenziali lettori.


Vaccino Covid, tutta la discussione a riguardo ormai ha ben poco di razionale

06-09-2021

Vaccino Covid, tutta la discussione a riguardo ormai ha ben poco di razionale

La discussione sui vaccini ormai ha ben poco di razionale. Io mi sono vaccinato appena è stato possibile: non avevo fatto in tempo come psicologo, ci sono riuscito per età. Lo dico per chiarire come la penso. Appartengo alla generazione che ha visto amici beccarsi la poliomielite, che ha fatto il vaccino per il vaiolo, i vaccini da militare e ha vaccinato i figli. Cosa c’è di diverso oggi?

Mi sembra evidente che nella generica categoria no vax c’è una grande eterogeneità di persone e posizioni. Alcuni hanno motivazioni mediche, altri politiche, altri attendiste. C’è chi teme che non siano stati sperimentati a sufficienza, visti i tempi normali per produrre un vaccino nuovo; non tengono conto che invece di cinquantamila soggetti qua si parla di centinaia di milioni, se non miliardi di persone già vaccinate in tutto il mondo; dello sforzo di intelligenza collettiva che ha messo insieme enormi risorse economiche e scientifiche in tutto il mondo.

È vero, non conosciamo gli effetti a lunga scadenza: conosciamo però gli effetti del Covid a breve scadenza. Oggi nei reparti di terapia intensiva ci sono nove volte su dieci non vaccinati o vaccinati che hanno preso la prima dose. I numeri dei morti sono calati vertiginosamente da quando il numero dei vaccinati è aumentato in modo significativo: i fatti sono argomenti testardi, diceva qualcuno, ma non bastano quando entrano in conflitto con dinamiche psicologiche profonde, e di questo voglio parlare.

Comunque è una posizione che hanno assunto persone che rispetto e che ritengono parziale l’informazione ufficiale sui vaccini e lacunosi o fuorvianti i dati: certamente l’informazione è stata contradditoria, confusa e lacunosa. Penso solo a quando AstraZeneca veniva ritenuto adatto per i giovani, pardon, per gli anziani, pardon, evitiamo le donne in età fertile. I casi di trombosi hanno suscitato un allarme sociale, anche se ogni farmaco può avere effetti negativi. Si tratta di calcolare i rischi: quando mi sono vaccinato la proporzione era di un decesso ogni seicentomila vaccinati, mi è sembrato di poter correre il rischio. Persone che conosco erano intubate e hanno recuperato solo parzialmente, a mesi di distanza.

Ci sono coloro che ritengono l’imposizione dei vaccini un attentato alla libertà individuale rispetto alla cura garantita dalla Costituzione: i costituzionalisti concordemente ritengono invece lecita l’obbligatorietà, perché la libertà individuale incontra i limiti del benessere collettivo. Non voglio prendere in considerazioni le ipotesi più balzane: vaccino tratto da feti viventi, inserimento di chip che possono indurti al suicidio, eccetera: siamo nel campo della paranoia, individuale o di gruppo e, come insegnava un professore di psicopatologia, “il paranoico, a parte il delirio, è normale”. Ecco perché persone insospettabili possono sposare tesi assurde.

Per alcuni il tema è quello del controllo sociale da parte dei governi: George W. Bush, dopo l’attentato alle Torri gemelli, fece varare il Patriot Act, con grosse limitazioni della privacy che non mi risulta siano state revocate. Un caro amico medico ha sintetizzato così: avevano solo la paletta e il secchiello, ora hanno la paletta e il fischietto e non lo molleranno.

Per alcuni il tema è la speculazione economica, i poteri forti, in particolare Big Pharma. D’altronde compriamo medicine per curarci, bisogna evitare che ci siano altri Francesco De Lorenzo (il ministro che lucrava sui farmaci). Sono certo che su un affare da miliardi di dollari c’è chi ci guadagna e c’è chi ci specula: mascherine, disinfettanti, tamponi, oltre ai vaccini. Hanno tutto l’interesse a mantenere lo stato d’allarme. Vero, ma il problema è che c’è ancora il virus.

Tra i no vax ci sono anche molti elementi della estrema destra, ultras vari, militanti della Lega che ricevono messaggi ambigui, antagonisti dal Salvini di lotta e di governo. I violenti che minacciano giornalisti e virologi mi sembra che siano persone che cercano rivalse personali, approfittando di una situazione confusa di relativa impunità. Quando si comincerà a perseguire chi minaccia? Se gli haters pagassero civilmente e penalmente per certe frasi, qualcuno ci penserebbe due volte. Grosse responsabilità le ha avute Beppe Grillo rispetto a Laura Boldrini: non sai mai dove arriva il vento che scateni.

Se devo cercare un filo rosso che collega gli elementi di questa galassia così eterogenea, c’è un certo vissuto del potere, che va dalla critica razionale alla diffidenza, all’avversione, all’antagonismo, al delirio di persecuzione: è uno spettro molto ampio.

Credo che nel caso specifico il no vax-no green pass sia attivato anche dalla profonda frustrazione: gli italiani erano stati disciplinati e tranquilli durante la prima chiusura, accettando restrizioni fortissime. Era chiaro che le conseguenze economiche, catastrofiche per molti, non si potevano curare con i pannicelli dei ricoveri. Mario Draghi è stato scelto non solo per la competenza, ma perché nessun partito voleva fare ciò che era indispensabile fare.

Il green pass è diventata la goccia finale, e la spaccatura attraversa associazioni, situazioni familiari, tutta la società. La reazione alle limitazioni attiva molte risposte inconsce, molti fantasmi individuali e collettivi si manifestano, per cui è inutile cercare di convincere nessuno. Quindi queste parole sono inutili.


Gli insegnanti stanno pagando un prezzo alto nella pandemia

16-12-2020

Gli insegnanti stanno pagando un prezzo alto nella pandemia: parecchi si sono ammalati, molti hanno dovuto imparare nuove tecniche, inventarsi una nuova pedagogia, mantenere tra mille difficoltà quel rapporto stretto con la classe che è fatto di quotidianità in tempi che hanno ben poco di routine quotidiana. 

Per un insegnante la più grande soddisfazione è avere lasciato qualche seme negli allievi, e a volte non si sa davvero cosa resta di quel tempo passato insieme.

Giuliana Bonacchi Gazzarrini lo sa, perché più di cento ex allievi si sono radunati al Valiani, caffè storico di Pistoia, per festeggiare i suoi novant’anni . Ma la cosa bellissima è che non è stato uno di quegli incontri tra reduci in cui si ricordano scherzetti, amori liceali, penose interrogazioni. Uno degli organizzatori, Maurizio Baldi, a nome di tutti le ha chiesto di fare loro lezione. Non di interrogare.

Gli insegnanti stanno pagando un prezzo alto nella pandemia

Posso scegliere io ì’argomento? - ha chiesto timidamente la prof. E per un’ora ha parlato di Leopardi. In classe non volava una mosca, questi studenti di mezza età erano consci di partecipare a un rito: quello della vera educazione.

Un’altra storia: Simone Frasca è un noto autore di libri per ragazzi, scritti e disegnati, che ama fare laboratori con i bambini delle elementari. A me ha fatto pensare alle incursioni di Gianni Rodari nella scuola per accendere la fantasia dei bambini.

Ed ecco che gli è successo, lo trovo su fb.

Ed ecco che gli è successo, lo trovo su fb.

Stasera tornando a casa ho trovato un bellissimo regalo di natale: la mia amica Elaide, livornese puro sangue, che adesso è in quinta elementare ma che conosco da quando faceva la seconda, mi ha spedito il suo primo libro: un giallo ambientato a scuola, pieno di personaggi (tutti i suoi compagni e le tre maestre), zeppo di colpi di scena, raccontato con mano esperta (comprese le false piste) e con un finale geniale e commovente. E alla fine del racconto un altro colpo di scena: "A Simone Frasca che mi ha fatto amare la lettura e la scrittura dei libri". Grandissima Elaide, sono orgoglioso di averti ispirato l'amore per la letteratura e per come la padroneggi posso scommettere che ispirerai altri bambini a tua volta, fra qualche anno :).

E siccome Simone Frasca è stato mio allievo al liceo e gli ho fatto pubblicare i primi disegni su La Rivolta degli straccioni, sconosciutissima . rivista underground della Lucca beat, mi sento orgoglioso anche io.


Psicologia e pandemia

28-09-2020

Psicologia e pandemia

È finito il tempo dell’ “Andrà tutto bene”: non lo sappiamo come andrà, possiamo solo fare ipotesi e seguire l’andamento della pandemia. Gli effetti impattano la salute fisica, la salute economica, la salute psicologica, la salute sociale.

La lotta alla povertà stava dando qualche risultato, siamo tornati indietro, e questo scatenerà conflitti tra i pochissimi ricchi che detengono la maggioranza dalle risorse economiche e i molti disperati. Se gente poverissima impegna risorse di tutta la famiglia per rischiare la vita su un barcone, vuol dire che non c’è speranza alcuna nel proprio paese.

Alcune certezze illusorie si sono rivelate false: l’idea della stabilità, posso contare su quello che ho, su quello che sono; l’idea delle magnifiche sorti progressive: si cresce, il Pil aumenta ogni anno, il futuro dei nostri figli sarò migliore del nostro.

Le cose sono impermanenti e abbiamo un controllo assai limitato sul futuro, partendo dal bene primario della salute fisica.

Sul piano psicologico ci sono due reazioni patologiche opposte, ma con la stessa radice: la negazione, che va dall’ignorare le regole, in una presunzione di immortalità: vedi discoteche, feste private senza alcun distanziamento, rifiuto della mascherina. Un povero sciocco vedeva passare le bare sui camion e diceva: è tutta una buffonata. La negazione è un meccanismo di difesa dell’Io abbastanza primitivo. Assume anche coloriture paranoiche, francamente patologiche, nei diversi complottismi, che vanno da “io la so lunga su cosa e chi c’è dietro”, alle teorie più assurde, il tentativo fallimentare della mente di trovare il colpevole: aspettiamo fiduciosi una teoria sugli extraterrestri.

L’altra reazione patologica è la risposta fobica ossessiva: vi sono persone che non escono da mesi, non vedono nessuno fuori dalla cerchia strettissima dei congiunti, impongono ai familiari restrizioni folli. Temono le persone, le cose, l’aria che respirano. Moltiplicano i rituali, e si sentono sostenuti dalla scienza e dalla prudenza sono nel giusto, gli altri, tutti, sono incoscienti o folli.

Questo confinamento sociale esaspera conflitti, impone rinunzie che sfociano in franche depressioni: tutto è rischio, dovere e non c’è più spazio per il piacere.

Tiziano Terzani titolò un memorabile articolo dopo l’undici settembre: Una buona occasione.

Siamo a un bivio, possiamo scegliere: sul piano della salute deve scattare una solidarietà mondiale e così sull’economia. Dobbiamo avere una distribuzione più equa delle ricchezze, e più Stato. Olaf Palme disse che il capitalismo è una pecora che va tosata, non scannata.

Sul piano personale occorre lavorare sull’accettazione profonda della condizione umana. Ricca e fragile, interconnessa con tutti gli essere viventi, come insegna la scienza e le tradizioni spirituali.

Semplificare la vita esterna, approfondire la vita interna, diceva Assagioli, fondatore della psicosintesi. All’enorme potere sulla natura, che è diventato prepotenza sulla natura, vedi clima, rifiuti, deforestazione etc non si è accompagnato un potere su noi stessi. David Hume, filosofo illuminista del settecento, scrisse “la ragione è e non può che essere schiava delle passioni e non può mai pretendere altro compito che servirle ed obbedirle”.

Io non lo credo, e la sua stessa osservazione lo contraddice. Per scrivere questo devi essere capace di osservare le passioni, pensarle.

Molti nel lockdown dichiarano di essere stati meglio, quasi vergognandosene. Chiediamoci perché. Un rallentamento, uno spazio per se stessi, per buon vecchie abitudini. Fare le cose importanti sempre accantonate per le cose urgenti: tenere un diario, pregare, fare yoga, pilates o ginnastica, leggere, meditare, riordinare la scrivania, telefonare a vecchi amici. Una decrescita felice della corsa quotidiana. Lo smartwork ha ridotto gli spostamenti, il tempo perso e anche migliorato la qualità delle riunioni; questa semplificazione forzata ci ha regalato del tempo che ci eravamo rubati da soli: stare di più a casa con la famiglia unita, cucinare, fare l’orto. E’ un cambio di paradigma che tocca ogni aspetto del vivere.

Possiamo scegliere tra l’autodistruzione o la crescita delle coscienze.


Le parole che non dicono, le parole che fuorviano, le parole che mentono.

05-06-2020

Come psicologo devo stare molto attento non solo a quello che dicono le parole, ma anche a quello che celano, e al sottotesto, ovvero a tutti gli impliciti del discorso. Sono andato a controllare il testo in inglese dell’autopsia preliminare di George Floyd. La traduzione apparsa sui giornali italiani ni sembra fedele-

Il medico legale scrive che non ci sarebbero evidenze fisiche che possano supportare una diagnosi di strangolamento o asfissia traumatica.

E’ una formula anodina, che non esclude del tutto, ma sottolinea che non ci sono prove. La domanda che sorge è , se non è morto per quel ginocchio sul collo per nove minuti, che gli faceva dire , “non respiro”, di che è morto?

La risposta è ricca di ipotesi: la combinazione di tre elementi: essere fermati dalla polizia, patologie pregresse, una sostanza intossicante presente nel corpo di Floyd.

La prima mi preoccupa particolarmente: se mi ferma la polizia effettivamente provo un certo batticuore, anche se ho tutto in regola. Immagino di non essere l’unico. Se poi uno soffre di ipertensione ( e qua non si dice se Floyd ne soffriva come tanti dopo i quaranta in forma lieve, media , gravissima) la situazione si aggrava: il mio batticuore potrebbe diventare un infarto. Quanto poi alla sostanza intossicante, quale era ? Aveva bevuto un whisky? Si era fatto una canna? Aveva preso anfetamine? Dove è la perizia tossicologica? 

Qua le parole sono state scelte con cura, per non dire, per suggerire la disgrazia, il caso sfortunato, per spacciare per rilievi scientifici, tatti, quelle che sono solo ipotesi, le più favorevoli per la polizia.

Certi referti sono cortine fumogene, lo abbiamo visto anche in Italia, vedi il caso Cucchi.

Peccato per il poliziotto che ci siano i video, altrimenti si poteva sostenere che era morto di spavento. Questi neri son molto emotivi, si sa. Ci sta, perché la polizia americana tende ad avere il grilletto facile con i neri, ne uccide un numero sei volte superiore a quello dei bianchi. Chi non si spaventerebbe ad essere fermato dalla polizia di Minneapolis, che ha una pessima reputazione di razzismo? 

Lo dice Marlon James, scrittore vincitore del Booker Prize che in quella strada di Minneapolis ha vissuto, nell’intervista su Republica di sabato. Ma è afroamericano. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più del medico legale. Tiro a indovinare: non è nero.

 


Lo psicologo ai tempi del Corona

13-03-2020

Lo psicologo ai tempo del Corona

Negli ultimi 75anni non ci sono state guerre in Italia, non ci sono state pandemie, non ci sono state carestie. Gli eventi tragici hanno sempre riguardato solo una parte della popolazione, anche quando avevano un impatto nella coscienza di tutti, come negli anni di piombo. Era una percezione, ma non una realtà tangibile, il coinvolgimento personale di tutti. I terremoti e le alluvioni che hanno funestato il paese ci potevano impressionare, magari attivare la solidarietà, ma alla fine c’era sempre un noi- loro. Finché non sono andato all’Aquila il terremoto non era entrato nella mia pelle, non era mio.

Il Corona cambia tutti i giochi e ci mette di fronte a uno scenario antico e nuovo : antico perché rievoca la peste, anche nel linguaggio dei media : si parla di untori. E molte famiglie hanno perso qualcuno nel 18,per la spagnola, non fosse bastata la guerra. Io ho perso un nonno, e questo ha cambiato del tutto il percorso di vita della nostra famiglia. Non ne ero consapevole, ma lo ha fatto. E certamente ne erano consapevoli i miei genitori, e in qualche modo, anche nel silenzio, lo trasmettevano. Intendo dire che certe catastrofi collettive si depositano comunque nell’inconscio collettivo di un popolo.

Le generazioni dei nonni hanno vissuto guerre e fame, si sono forgiate nell’esperienza della sopravvivenza, nella consapevolezza che non può esistere una sicurezza assoluta, che le prove individuali e collettive arrivano. Noi lo dobbiamo imparare adesso. All’inizio forse tutti abbiamo minimizzato : accade in Cina, pochi casi da noi, peccato per quei piccoli comuni lombardi, pochi morti ed erano vecchi e malati.. Ci siamo tappati gli occhi finché è stato possibile.

Su Il Fatto di oggi i medici hanno raccontato che spesso devono  scegliere se ventilare un quarantenne o un sessantenne, se hanno un solo apparecchio. Non mi ha rassicurato la notizia, appartenendo a pieno titolo alla seconda categoria.
La precarietà colpisce tre aspetti: la sopravvivenza fisica, quella economica e l’abbandono di stili di vita nelle relazioni che ci vengono richiesti. Tutto questo ha un impatto enorme sulla psiche , e noi lo vediamo con i nostri pazienti. L’ansia che ci portano è anche la nostra, il timore di “essere unti” o di “essere untori”, per qualcuno la negazione. A mio pare è necessaria una psicologia dell’emergenza, come nelle grandi calamità, ma diversa per la prescrizione di non vedere gruppi troppo numerosi o vicini. Bisogna allora attrezzarsi e raggiungere chi ha bisogno con Skype e tutti gli altri mezzi possibili, fare degli sportelli d’ascolto che vadano incontro alle diverse esigenze.

Per qualcuno è ansia, per qualcuno è lutto, per qualcuno è uno sconcerto profondo, per qualcuno una ben fondata disperazione. Come i medici, dobbiamo fare la nostra parte, sempre attenti a ciò che noi stessi proviamo, perché stavolta il professionista è nella stessa barca, nella stessa tempesta. Se stiamo a casa possiamo riscoprire spazi e tempi che avevamo perso, cercare quindi di “Collaborare con l’inevitabile”, come  scriveva l’imperatore filosofo Marcaurelio. 

Qualche bel segno c’è.  L’azione solidale dei giovani musulmani che portano la spesa agli anziani ci sia di esempio, questo deve essere  un tempo di prudenza, ma non di  sospetto e paranoia.


Disturbo borderline di personalità

26-10-2019

Convegno della Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’. 
Un intervento al confine. Dialogo fra psicoterapia, medicina e sociologia.
Firenze, 26-27 ottobre 2019

Pier Claudio Devescovi

Sindrome borderline e post modernità 

Ho una formazione come Sociologo e come Psicoanalista jughiano. Probabilmente per questa doppia provenienza Andrea Bocconi mi ha chiesto se mi sentivo di fare una relazione sui rapporti fra sindrome borderline e clima culturale, una relazione fra Sociologia e Psicoanalisi. Ho accettato molto volentieri e lo ringrazio. Questo lavoro che presento è in effetti un lavoro a 4 mani con Camilla Albini Bravo. Il tema del titanismo e quello del vuoto, in particolare, sono temi della sua ricerca da molti anni.

In ambito junghiano un autore apprezzato per il suo pensiero è Schwartz-Salant, un medico e analista junghiano che ha scritto alcuni importanti saggi sulla sindrome borderline e sul narcisismo. In un suo saggio egli afferma che: “La vita della persona borderline è strettamente collegata al problema del tempo” (1), frase che tiene presente anche quello che afferma Jung stesso ne La Psicologia dell’Inconscio: “La nevrosi è strettamente collegata al problema del tempo e configura propriamente un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in se medesimo il problema generale” (2). Ed ancora nella sua autobiografia Ricordi Sogni e Riflessioni dove afferma: “Un problema collettivo, fino a che non è riconosciuto come tale, si presenta sempre come un problema personale, e in certi casi può dare l’impressione errata che qualcosa non sia in ordine nel dominio della psiche personale. Effettivamente la sfera personale ne è disturbata, ma disturbi del genere non devono necessariamente essere primari, possono benissimo essere secondari, conseguenza di un mutamento intollerabile nell’atmosfera sociale” (3, p. 282)

Queste affermazioni suggeriscono la possibilità di un rapporto fra patologia individuale e aspetti della cultura di un dato periodo storico, operazione del resto non nuova: l’isteria è stata in più occasioni messa in relazione con la cultura vittoriana dell’Europa ottocentesca. Così pensiamo si possa tentare un collegamento o mettere comunque in luce assonanze fra la sindrome borderline, sempre più presente nel nostro lavoro clinico, e alcuni aspetti della cultura che stiamo vivendo.

Nella lingua inglese il termine borderline si riferisce a linea di demarcazione, confine. Il termine usato dagli autori anglosassoni per questa forma di psicopatologia rimanda necessariamente al problema dei confini. Anche se in passato è stata talvolta considerata una “diagnosi cestino per i rifiuti”, né nevrosi, né psicosi, io credo possa essere definita, anche, come “malattia dei confini” e nel mio intervento terrò presente questo modo di intenderla.

Questa “sindrome dei confini”, che immagino non si siano chiusi e definiti al momento giusto, riguarda la distinzione fra i tempi (fra il passato, il presente e il futuro), fra le persone (tra i figli e i genitori), fra gli umani e gli oggetti e, ancora, tra gesto e parola e fra l’Io e gli altri complessi.

Per tentare un accostamento e mettere a fuoco qualche forma di relazione fra la sindrome borderline e il tempo che abbiamo vissuto e che ancora viviamo, ho scelto due date che mi sembra si riferiscano ad alcuni importanti aspetti che caratterizzano il tempo attuale che possiamo definire di post-modernità. La prima, comunemente indicata come “il ‘68”, comprende il periodo che va dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso al decennio successivo ma che comprende, secondo me, anche gli inizi degli anni ’60, il periodo del boom economico.

È ampiamente condiviso il giudizio che il fenomeno più importante del ’68 sia stato la lotta contro i padri. Se è vero che i padri pre-68 erano in larga parte autoritari e incapaci di un dialogo, è altrettanto vero che, dopo averli abbattuti, la generazione dei figli non è riuscita a costruire un’immagine di padre autorevole e aperta all’ascolto. Avendo avuto padri che possedevano già le risposte, i figli non sembrano essere stati capaci, a loro volta, di essere padri senza risposte ma pur sempre padri in grado di avviare i figli verso la propria, ancor sconosciuta, verità. Semplicemente hanno taciuto e sono diventati, per non perdere il contatto coi loro figli, dei “mammi” o anche degli amici dei loro figli.

L’altra data che mi è sembrata importante ai fini di questo discorso, è il periodo fra gli ultimi mesi del 1989 e i mesi successivi del 1990 che videro la caduta del muro di Berlino. La gente andava a vedere, attirata da un evento che percepiva carico di significato e di emozione. Si ebbe la sensazione della definitiva conclusione della 2° guerra mondiale con la fine della sua coda, la guerra fredda. 

Ma oltre a questi aspetti la caduta del muro ha determinato anche la sensazione di perdita di confini netti, ben definiti, la distinzione fra amici e nemici, o comunque fra alleati e avversari e la perdita del sistema simbolico costituito dal mito del comunismo che rappresentava un punto di riferimento e dava un senso di appartenenza anche a larghi strati della popolazione e a molti intellettuali in occidente. E non vi è stata a questo proposito la presenza e la proposta di un nuovo senso di appartenenza nell’Europa unita che non è riuscita e non riesce a tutt’oggi a costituirsi anche negli aspetti simbolici e mitici.

Credo che questo evento possa aver contribuito alla crisi delle ideologie e, assieme all’altra data che ricordavo, il ’68, a una certa messa in crisi del concetto di autorità.

Non è la prima volta, ovviamente, che cadono muri o che assistiamo a uno scontro generazionale e ogni evento del genere comporta conseguenze sul piano della cultura e dei rapporti nella società civile, comprese le forme del disagio psicologico. Oggi noi, terapeuti, ci troviamo spesso di fronte a situazioni a struttura liquida dove i confini fra realtà, desiderio e sogno sono confusi. I comportamenti, gli atteggiamenti, i valori prevalenti sembrano caratterizzarti da aspetti titanici. La domanda quindi che ci dobbiamo porre è perché le conseguenze di questi eventi assumono aspetti titanici invece che, ad esempio, depressivi o schizoidi. Per rispondere a questa domanda ho bisogno di spiegarvi cosa intendo quando dico “titanico”, soprattutto come Camilla Albini Bravo intende e utilizza questa immagine.

Rafael Lopez Pedraza, in un articolo apparso nel 1987 (4) ci introduce all’immagine dei titani. Egli, commentando il fatto riportato da Kerenyi che non ci fossero rituali né culto per i titani e che quindi non erano definiti come gli altri dei da culti, rituali, altari, afferma: “I tempi titanici possono vedersi come un periodo di transizione fra l’uomo primitivo e l’uomo colto, civilizzato, un periodo durante il quale non esisteva né il rituale né il culto dell’uomo primitivo, né l’immagine antropomorfa ben definita dell’uomo molto colto e religioso” (4, p. 67). Egli colloca così, psicologicamente parlando, il tempo titanico in una posizione borderline tra il prima e il dopo la cultura, comunque in un tempo che ha a che fare con le origini e con una dimensione originaria di non riflessione.

Una coscienza governata da uno stile titanico è una coscienza che non ha limiti, non solo nel senso di confini e di aree di proibizione del desiderio, ma anche nel senso di confini come perimetro, confini come linea che, delimitandomi, mi definisce come identità. Stiamo quindi parlando di una dimensione che ha a che fare con un illimitato desiderio ma anche con una disperata dispersione di identità. Il vuoto titanico risulta insopportabile proprio per la commistione di questi due elementi. Non è solo un vuoto d’oggetto ma anche, soprattutto, un vuoto di sé e questo è insopportabile. Una paziente di Schwartz-Salant affermò in seduta: “Ognuno cerca di aiutarmi, tutti i miei amici sono preoccupati. È che non ho un’identità. Non ho nessun senso di me stessa” (1, p. 47).

Kerenyi, nel saggio Gli Dei e gli Eroi della Grecia, (5) descrive i titani come non soggetti ad alcuna legge e per i quali non esiste né ordine né limite, dominati da una spinta all’eccesso. E se noi proviamo a immaginare che Kerenyi stia descrivendo non solo delle figure mitologiche ma anche degli assetti psichici, degli stili di coscienza che appartengono alle nostre origini, allora dobbiamo ammettere che il titanismo, come possibilità innata in ognuno di noi, sia collegato a un intollerabile senso di vuoto e a una spinta irresistibile all’agito. Mi rendo conto che sto descrivendo qualcosa di simile alla tossicodipendenza.

Interessante, per il nostro discorso, è tenere presente alcuni degli elementi cui Lopez Pedraza collega il titanismo psichico perché sembrano rappresentare bene il nostro tempo: l’eccesso e il vuoto contrapposti all’immagine e al sentimento. “Questi pazienti – prosegue Lopez Pedraza – sono incapaci di creare un’immagine (…) e quando manifestano ciò che si potrebbe chiamare immagine questa non viene accompagnata da emozioni o sentimenti psichici allora da questa immagine non viene alcuna creatività” (4, p. 70)

Tale modalità di funzionamento non è presente solo nei singoli pazienti che incontriamo nel Servizio Pubblico o nei nostri studi privati, ma sembra essere uno stile di pensiero collettivo che rende difficile l’uscita da questa modalità irriflessa dove predomina l’agito inconsapevole e l’illimitato desiderare. La mancanza di riflessione, cioè l’assenza, nel mio rapporto col mondo, dell’immagine di me in rapporto col mondo è uno degli elementi costitutivi del titanismo.

Questo mi sembra un punto importante che vorrei chiarire meglio. Non vedere me in rapporto col mondo determina l’incapacità di vedersi, di avere una riflessione su me stesso e se non ho l’immagine di me non ho neppure il sentimento, la consapevolezza di me. Posso avere l’oggetto, nell’illusione di avere me stesso ma si tratta, appunto, di un’illusione perché è l’immagine che mi manca. Quando la pubblicità propone un’auto super potente, il cosiddetto titano la compera, non in quanto auto ma in quanto potenza, ma non avendo un sentimento di sé non trova la potenza ma semplicemente l’auto. E la ricerca ricomincerà all’infinito perché per sentirsi potenti bisogna “sentirsi”. L’equivoco è che per sentirsi potente non devi cercare la potenza ma devi cercare il sentimento di te, che potremmo anche chiamare “Identità”.

Jung, nel Libro Rosso, Edizione Studio, afferma che “Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo (…) Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà ma non ritroverà la sua anima perché solo dentro di sé la potrebbe trovare (…) La potrebbe trovare nel desiderio stesso ma non negli oggetti del desiderio (…) perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione (…) La ricchezza dell’anima è fatta d’immagini. (6, p. 17).

Nella situazione che sto cercando di descrivere credo abbia avuto un ruolo importante anche l’Economia che sembra si sia allontanata dal suo compito di scienza tesa a soddisfare i bisogni degli uomini e a creare e distribuire la ricchezza, per assumere aspetti titanici. L’economia è una scienza molto complessa di cui la psicoanalisi si è occupata, anche se finora un po’ marginalmente, con tentativi, a volte, di applicare lo strumento psicoanalitico all’economia nel suo complesso. Rimando volentieri a uno degli ultimi numeri della Rivista di Psicologia Analitica (7) che raccoglie articoli di economisti e di psicoanalisti su questi temi.

Della complessità dell’Economia sottolineerei due aspetti che mi sembrano avere caratteristiche titaniche. Il primo è legato alla sua trasformazione, che appare sempre più accentuata, in senso finanziario piuttosto che industriale. Questo aspetto è stato una delle cause della cosiddetta bolla immobiliare, nata negli Stati Uniti, e che ha innescato una crisi economica nel resto dell’occidente. Direi, in estrema sintesi, che ai grandi movimenti di denaro non corrispondevano i beni o il lavoro che il denaro rappresenta.

L’altro aspetto è legato al messaggio pubblicitario che l’economia ci presenta tutti i giorni e che sembra proprio ricalcare modelli titanici: non accontentarsi, volere sempre il massimo, sempre di più in una successione di messaggi che spingono all’acquisto, non legato necessariamente al bisogno ma più spesso alla necessità di colmare un vuoto, una mancanza e dove è sottolineato e incoraggiato, in modo più o meno esplicito, il superamento del limite. Messaggi che evocano il titano che è in ognuno di noi, soprattutto attraverso quelli che rimandano alla potenza, di cui parlavo poco sopra, al superamento dei limiti dell’età, all’annullamento degli aspetti della vecchiaia, in definitiva della morte. Fa tenerezza ripensare ai vecchi “Caroselli” dove veniva sottolineato il detersivo che lava più bianco o la cera per i pavimenti. Ora voliamo molto più in alto.

La possibilità dell’emergere di consistenti aspetti titanici è legata anche, a mio avviso, a una delle conseguenze del ’68, quella della lotta ai padri che ha determinato l’eclissi della funzione paterna. Su questo tema hanno scritto molti analisti famosi fra i quali Simona Argentieri, Luigi Zoja, Massimo Recalcati e altri.

Un recente saggio di Franco Lolli (8) evidenzia prevalentemente questo aspetto del ’68 le cui conseguenze stiamo ancora vivendo. Egli ricorda che uno degli slogan del ’68 era “Proibito proibire”. Questo slogan è stato ripreso, parafrasandolo, da Concetto Vecchio in un saggio sulla storia della facoltà di Sociologia di Trento cui ha dato il titolo “Vietato obbedire”, dedicandolo a suo padre. (9) Lolli fa risalire agli anni ’70 l’incremento delle situazioni borderline tale da porsi come fenomeno di rilevanza sociale.

Desidero introdurre un fatto di cronaca che mi sembra descriva quello di cui stiamo parlando. Il fatto è riportato dal quotidiano La Repubblica (cronaca di Firenze) del 22 febbraio 2013. “Pistoia: alcol e ragazzine sul cubo alla festa degli under 16. I più grandi avevano 16 anni, i più piccoli 13 (…) Una scena mai vista quella che si è presentata mercoledì sera ai poliziotti, ai vigili e ai finanzieri di Pistoia che hanno fatto irruzione in un residence del centro storico in cui si organizzavano festini a base di alcol (…) Stipati nella mini discoteca, tra luci stroboscopiche e musica a tutto volume, gli agenti hanno contato ben 230 minori di cui non pochi ubriachi. Il locale (…) sottoposto a sequestro per 3 mesi non era neppure in possesso dei requisiti per organizzare le feste: niente uscite di sicurezza, niente maniglie antipanico all’unica porta di accesso, niente autorizzazione a somministrare alcolici, nessun rispetto per le normative anti-incendio. A finire denunciati a seguito del blitz, il titolare del locale, gli organizzatori – due ragazzi di 13 e 16 anni – e perfino un genitore che li avrebbe supportati”.

In queste righe sono descritti molti degli aspetti che caratterizzano la nostra cultura attuale. In primo luogo l’abdicazione del ruolo genitoriale e della sua autorità di vigilanza sui minori. In secondo luogo la mancata interiorizzazione delle norme da parte del titolare del locale: fino a che qualcuno non le fa rispettare, le norme si possono tranquillamente trasgredire, anche al rischio dell’incolumità di 230 minorenni. In terzo luogo, se disgraziatamente fosse successo un qualche incidente, da una crisi alcolica acuta al diffondersi del panico con una ressa per uscire, ad esempio per un principio di incendio, quale sarebbe stata la reazione dei genitori? Sicuramente un rimpallarsi delle responsabilità e la difficoltà ad assumersi le proprie. In ultimo è necessario parlare dell’evanescenza dei limiti che questo episodio di cronaca ci pone sotto gli occhi.

Voglio aggiungere a questo un commento di Gabriele Romagnoli sull’arresto dei giovani responsabili della tragedia alla discoteca di Corinaldo (Repubblica, 4 agosto 2019, p. 4) dove descrive la loro condotta criminale: “La modalità quella di strappare i beni a coetanei o minori indifesi. Non c’erano né confine né limite. A Corinaldo hanno continuato ad agire anche mentre la tragedia era in corso derubando le vittime e i soccorritori”.

Lolli sottolinea un altro tema importante e cioè che “La società post moderna è caratterizzata dalla supremazia dell’immagine e più in generale dell’immaginario” (8, p. 34-35). Condivido questa analisi e penso che questa supremazia, che rappresenta un sintomo, possa essere al contempo una possibilità di cura solo a patto che possiamo distinguere fra vera immagine e falsa immagine.

Seguendo Jung, ma anche Winnicott, dobbiamo ricordarci che le vere immagini nascono dal profondo, individuale o collettivo che sia, e chiedono all’Io una capacità di silenzioso ascolto, direi quasi una meditazione, per poter esprimere la loro efficacia. Chiedono all’Io ascolto e rinuncia al desiderio che le vorrebbe in un modo o in un altro. Le vere immagini non sono appagamento di desiderio, quelle sono frutto di fantasie a occhi aperti, pericolosa dimensione di onnipotenza, come ci ricorda Winnicott che le definisce come “fantasticherie” accostandole alle psicosi. Le infinite immagini che abitano il nostro tempo, soprattutto quelle veicolate dall’arte, sembrano raccontare come la psiche cerchi di curarsi disperatamente dal titanismo chiedendo alle immagini di ricollegarsi ai sentimenti nostri e del mondo, a ri-animarci perché senza anima non riusciamo a vivere. Non intendo, ovviamente, il termine Anima in senso teologico o religioso, sto parlando di funzioni psichiche.

Una delle definizioni, forse più intense che Jung dà di anima è che essa è la funzione riflessiva della psiche, è il luogo dove si raccolgono le immagini attraverso le quali il nostro vivere acquisisce senso. Come ci suggerisce Lopez Pedraza, le immagini devono divenire sentimentalmente consapevoli. La cura è soprattutto nel riflettere su di esse.

Rispetto a quanto afferma Franco Lolli penso che sia necessario un padre-coscienza prima ancora di un padre-regola perché se è plausibile la lettura che ho proposto di una società caratterizzata dal titanismo, dobbiamo tenere presente che per il titano la regola è una sfida che innesca un comportamento, quasi automatico, tendente a infrangerla. Prima dell’Edipo, o comunque accanto ad esso, mi pare necessario il fondamento dato, attraverso l’uso e la consapevolezza delle immagini, al sentimento di sé.

Perché l’Io sia in grado di accettare delle regole deve, prima di tutto, esistere e la sua esistenza dipende dalla capacità di percepirsi secondo le 4 funzioni che Jung gli attribuisce: Io-sensazione, capace di percepirsi come corpo nel mondo, Io-sentimento, in grado di leggere le proprie ed altrui risposte sentimentali al mondo, un Io-pensiero, capace di pensarsi nel mondo e un Io-intuizione, capace di immaginare i cambiamenti che egli può fare nel mondo e quelli che il mondo può fare su lui.

Nella descrizione che Lopez Pedraza fa del vuoto titanico, particolarmente deficitaria sembra la funzione sentimento, tanto da svuotare di significato le altre tre funzioni. Quello che preme sottolineare è che l’efficacia di un’immagine che ci riflette e ci apre alla consapevolezza è data dal suo portato sentimentale.

Immagine e sentimento come cura del vuoto, letteratura e film come cure del nostro collettivo vuoto esistenziale titanico. 

 

Riferimenti bibliografici

(1) – Schwartz-Salant N. (1982) Borderline: visione e terapia, La Biblioteca di Vivarium, Milano, 1997 

(2) – Jung C.G. (1916-1942) La Psicologia dell’Inconscio, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983

(3) – Jung C.G. (1961) Ricordi, Sogni e Riflessioni, Rizzoli, Milano, 1965

(4) – Lopez Pedraza R. (1987) Sul Titanismo. Un incontro tra la Patologia e la Poesia, L’Immaginale, 8, anno 5, aprile 1987

(5) – Kerenyi K. (1984) Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano, 1984

(6) – Jung C.G. (2009) Il Libro Rosso, Edizione Studio, Bollati Boringhieri, Torino, 2018

(7) – Carrara S., Madera R. (a cura di) (2018) Psiche bene comune. Economia e psicologia del profondo, Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, vol. 98/2018, n. 46

(8) – Lolli F. (2012) L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, Mimesis, Milamo-Udine

(9) – Vecchio C. (2005) Vietato obbedire, Bur, Milano


Novara, uccide l’amico e si scusa sui social. Ormai esistiamo solo in Rete

28-08-2019

Novara, uccide l’amico e si scusa sui social. Ormai esistiamo solo in Rete

La tragedia del giovane che uccide l’amico e si scusa (sic) su Facebook fa riflettere da diversi punti di vista. La frase “ l’ho fatto per amore” testimonia un analfabetismo emotivo assoluto: è quello che si chiamava delitto passionale, ovvero alla base c’è l’odio, e quell’odio deriva da un’identità fragilissima che si sente minacciata alle fondamenta dall’abbandono possibile. Chiaro che parlo in astratto, senza conoscere lui, ma non credo che sia un’analisi sbagliata di certi meccanismi.

Odi et amo, quare id faciam nescio, sed fier sentio et excrucior: odio e amo, perché lo faccio non lo so, ma lo sento e ci soffro. Lo scrive il poeta Catullo, sono passati duemila anni, ma certi meccanismi sembrano eterni. La distruzione dell’oggetto d’amore che ci vuole abbandonare la leggiamo nella maggior parte dei femminicidi. Tutti proviamo certe alternanze emotive, ma da qui a uscire con un coltello in tasca e uccidere entrano in gioco altri elementi: la nostra psiche, la cultura che ci prescrive o no la vendetta purificatoria, l’educazione.

L’altro aspetto rilevante è la scelta della confessione via Facebook: anche qui si usa il mezzo per riaffermare che si esiste, per costruirsi un’identità di facciata che chiede la conferma della propria esistenza coi like, i cuoricini e il numero degli “amici”. Nella pubblicazione si cerca in qualche modo perdono, ma forse anche approvazione e comunque un’affermazione potente di chi siamo, prima di scomparire nel carcere.

E qua viene un altro punto dolente: con chi si sono sfogati gli odianti? Non con lui, non con la vittima, ma con la ragazza, “la responsabile vera”. Insomma, se lei stava al suo posto, proprietà del giovane, non succedeva nulla. Ora la poveretta deve difendersi pubblicamente da questa manica di vili che, protetti dal filtro della Rete, sparano contro tutti le parole che non avrebbero mai il coraggio di dire nella vita vera. Nella Rete, come negli altri media, si crea una realtà altra che poi resta appiccicata e appiccicosa. Pensiamo alle rettifiche sulla stampa: contrariamente alle prescrizioni di legge, finiscono minuscole nelle ultime pagine.

Mi chiedo se non è il caso di prevedere reati di diffamazione e ingiuria a mezzo Facebook; mi chiedo se certi massacri sulla rete che magari inducono al suicidio chi ne è bersaglio non siano reati gravi e perseguibili. Il codice penale va aggiornato ai nuovi tempi.


Piccoli miracoli bellini

14-04-2019

La relazione è lo specchio del Sé, ha scritto J.K.Krishnamurti. Cosa c’è di più difficile di essere in relazione con qualcuno, un bambino, che non sa venire fuori dal suo mondo? Che sembra irraggiungibile. 
Eppure c’è chi lo fa, con saggezza, competenza e amore. Quando Miriam Dinelli mi racconta qualche successo, le cosiddette piccole cose, lei commenta semplicemente: è stato bellino. Piccoli miracoli bellini.
Andrea Bocconi

 

Ellen Marie Cassat In A White Coat – Mary Cassatt,  1896

Ellen Marie Cassat In A White Coat – Mary Cassatt, 1896

 

Rapita dalla favola narrata nella presentazione del sito Kere, seguendo il gioco di metafore che vi si incontrano, potrei iniziare a narrare della mia attività professionale nel modo che segue. 

Sono arrivata in un paese sconosciuto, in un Distretto della così detta Media Valle in provincia di Lucca, trascinata da un’onda improvvisa e inimmaginata: una difficile situazione lavorativa. In un istante l’onda mi ha rovesciata facendomi sentire spaventata e impreparata. Grazie probabilmente a un certo istinto di sopravvivenza, al mio bisogno di essere vista e di creatività, è iniziata per me una ricerca di significato. Si è avviata in questo modo la mia esperienza professionale all’interno dell’ Unità Funzionale Salute Mentale Infanzia e Adolescenza della ASL 2, con sede a Fornaci di Barga, dove mi occupo di bambini con difficoltà evolutive, in particolare con diagnosi di Spettro Autistico.

L’onda aveva scardinato in me certezze e identità. Così, una volta approdata con una certa violenza sull’isola sconosciuta, ho riconosciuto subito - continuando a parafrasare - quelli che sarebbero stati i miei strumenti di salvezza.

Prima di tutto la insostituibile esperienza di chi mi ha preceduta, il gruppo professionale costituito da neuropsichiatre, psicologhe logopediste e terapiste della neuro-motricità. Un gruppo di lavoro grazie a cui è stato possibile soddisfare i bisogni di connessione, reciprocità, competenza, partecipazione, comunione e benessere.

In secondo luogo i testi più importanti in ambito scientifico (Linee guida del Ministero della Sanità,DSM-5,DENVER,DIRecc.); le teorie di riferimento sulla mente, sulle funzioni esecutive, sulla coerenza centrale, i cui deficit giustificano le difficoltà di comprendere le proprie emozioni e quelle degli altri, di interpretare i comportamenti, di pianificare, di selezionare le informazioni, di utilizzare l’attenzione, di integrare le informazioni provenienti da diversi canali sensoriali in una risposta dotata di significato.

E ancora, non meno di valore, i numerosi libri scritti da genitori, insegnanti, educatori che passo dopo passo hanno fatto ricerca, scoperto e condiviso informazioni e strumenti per rendere migliore l’identità di un bambino con difficoltà evolutive. 

Inoltre, una preziosa psicoterapia personale. 

E infine le costanti domande ripetute silenziosamente tra me e me davanti agli utenti che, anch’essi impauriti, impreparati, disorientati e angosciati, approdavano con la stessa violenza sull’isola sconosciuta e venivano trascinati dall’onda della diagnosi fino alla porta della mia stanza educativa-abilitativa. Cosa sei tu/voi per me? Cosa sono io per te/voi? Che significato ha il mondo per te/voi? E per me? Come è il tuo modo di manifestarti al mondo? Quali i tuoi comportamenti (o sintomi)? Saprò parlare adeguatamente, con chiarezza, con semplicità? Come ci possiamo arricchire reciprocamente?

Il filo conduttore di ogni seduta è instaurare un contatto di sguardo, far nascere la relazione, creare questa intesa: io sono qui, tu sei qui. Questo incontro deve essere utile a entrambi, dobbiamo uscire da questi 45 minuti di incontro arricchiti entrambi, fosse anche per la semplice soddisfazione di aver sostenuto lo sguardo un secondo in più.

Sollecitare lo sguardo, implementare l’aggancio oculare, stimolare la competenza comunicativa e relazionale, aumentare l’attenzione condivisa e la reciprocità, ridurre la frustrazione, rispettare le regole, i turni di gioco ecc. Questi gli obiettivi primari previsti generalmente nei Progetti Riabilitativi e Terapeutici che vengono elaborati in équipe referenti, dopo avere fatto una delle seguenti diagnosi: disturbo spettro autistico, disturbo della regolazione emotiva, disturbo del linguaggio espressivo, disturbo della comunicazione, iperattività, deficit cognitivo lieve, medio o grave, mutismo selettivo.

Ho riempito l’armadietto di armi a mio favore: giochi e qualsiasi altro tipo di oggetto possa stimolare una curiosità, una reciprocità. Oltre che a fazzoletti di carta e pannolini, chicchi e biscotti, piccoli premi da usare come rinforzo ogni volta che si è appresa una nuova abilità, o comunque per regalarci una piacevole condivisione come finale della seduta riabilitativa.

Per scelta - motivata sia dalle precedenti esperienze professionali, sia dalle indicazioni delle più recenti ricerche scientifiche - chiedo che i genitori partecipino, più o meno attivamente, alla seduta abilitativa e che si cimentino in alcuni comportamenti utili. Ad esempio modificare gli ambienti familiari e scolastici; interrompere le stereotipie (dondolarsi, sfarfallamento, rotolare oggetti, ecc.); interrompere o interferire con le ecolalie (ripetizione di parole); interferire delicatamente, per il forte stress che può causare, con alcune routine; interferire quando c’è da spostare l’attenzione; meravigliarsi per la conoscenza approfondita di argomenti particolari (animali, pianeti, ecc.) e cercare di sfruttarla per la relazione o per stimolare un interesse che al momento non è assolutamente presente. 

Che cosa accade nella stanza della terapia? Accade che Amelia, quattro anni, entra chiedendo a me, cinquantatré anni, “vuoi essere mia amica?”

Accade che Olaya scappa improvvisamente aprendo la porta senza che io capisca l’evento scatenante, o che mi da un calcio mentre io la sollecito a guardarmi. Accade di ripetere al genitore presente, dispiaciuto e ferito dal comportamento di Olaya, che non sono comportamenti intenzionali ma probabilmente di difesa. Potrei esserle andata troppo vicina, aver usato una tonalità di voce troppo alta o un profumo non gradito. Forse stava passando un camion sulla strada o si sentivano i passi di scarpe col tacco dal piano di sopra. Forse semplicemente non aveva riposato abbastanza o io avevo usato troppe parole mentre avrei dovuto usare immagini e foto.

Accade che Amit usa il suo naso per annusare - che equivale a dire conoscere – tutto ciò che lo circonda: il tavolo, i quaderni, i giochi e altro. Che Loredano si arrotola nel tappeto e io gli concedo un po’ di tempo per stare così riparato prima di andare a cercarlo.

Accade che Leonardo entra nella stanza, la guarda e dice “che bella stanza!”. E accade che io mi sento realizzata per essere riuscita almeno per lui a creare un ambiente dove si senta… bene!

Nella stanza però c’è anche da accogliere il trauma emotivo dei genitori, il loro senso i colpa per avere generato un figlio “non sano”, le loro aspettative deluse, la loro rabbia, le loro preoccupazioni, la loro disperazione, la loro sensazione di sentirsi annullati come persone e chiamati ad essere genitori per tutta la vita. Angoscia che spesso si sintetizza nella domanda “cambierà?”.

Nella stanza si tenta di prendere quella pesante angoscia e si cerca di farla più sopportabile dicendo che le traiettorie evolutive sono imprevedibili, che le diagnosi possono modificarsi come non, che forse quella specifica diagnosi non è passeggera e momentanea ma che si potranno acquisire abilità per migliorare l’identità e farne emergere tutte le potenzialità. Si dice loro che non hanno come figli solo dei bambini diagnosticati, e che quei bambini, come tutti noi, sono molto più del disturbo che hanno. Siamo la nostra storia, le nostre relazioni, quello che pensiamo e penseremo di noi.

Per tornare alla home del sito Kere, ho immaginato il signore dell’isola che ne contempla la bellezza e la illustra ai suoi ospiti. La stessa cosa cerchiamo di fare noi tecnici delle “diverse abilità”: mostrare la bellezza di ciò che c’è per rispondere alla domanda “cambierà?”

Non so se cambierà, so che oggi mi ha guardato per un tempo più prolungato, che ha ripetuto “zzz” indicando l’immagine dell’ape, che ha accettato di perdere al gioco dell’oca e che ha cantato “tanti...uri a te”. So che abbiamo fatto insieme la torre con i cubi mettendo “un pezzo te e un pezzo io”. So che ha detto un chiaro “NO” ad una mia proposta di gioco. So che ha scelto un gioco prendendo un’ iniziativa. So che mi ha imitata, mi ha salutata, e che è stato/a seduto/a sulla sedia per il tempo necessario allo svolgersi dell’attività. So che ha disegnato e parlato di sé. So che mi ha raccontato del lutto dello zio, che si è molto divertito al carnevale, che il suo gioco preferito sono i Play Mobil e che ha accettato di portarli per giocare insieme. So che è stato/a quasi tutto il tempo della terapia sotto il tavolo imitando il cane e il gatto, forse era il suo modo di dire che era stanco/a e che voleva andare a casa. So che oggi non si è morso/a!

Continuiamo a scandagliare e indagare ogni loro comportamento per conoscerlo, comprenderlo e renderlo un ponte comunicativo. 

Miriam Dinelli


Conferenza “Il labirinto è la destinazione di tutti i viaggi, quelli fuori e quelli dentro di noi.”

30-03-2019

Il labirinto - un viaggio dentro e fuori

Sabato 30 Marzo 2019 ore 17:00
(ingresso gratuito con prenotazione)

Un incontro dedicato al tema del Labirinto, spaziando dalla letteratura al teatro, fino ad esplorare i significati più simbolici per l’essere umano, per la crescita ed evoluzione personale.

presentano Francesca BarabinoM.Vittoria Salimbeni

Letture a cura degli insegnanti di ARMITOTeatro

Giulia Grattarola, Fabio Fabbri, Roberto Repele

DOVE:
Sala di ARMITOTeatro
Viale Brigata Bisagno 2 int. 28 scala destra 5° piano Genova

Scarica l'invito in formato PDF


Cinque criteri per capire se una setta è pericolosa

03-03-2019

Cinque criteri per capire se una setta e pericolosa

 

Tempo fa una persona mi chiese una valutazione psicodiagnostica. È raro che un privato la richieda se non all’interno di un percorso di psicoterapia. I risultati furono “normali”, nessun segno di psicopatologia grave: chiesi che dubbi avesse e mi disse che nella setta religiosa induista di cui faceva parte da tre anni, quando aveva dichiarato la sua intenzione di allontanarsene le avevano detto che non era in grado di vivere fuori dal gruppo e sarebbe probabilmente impazzita o si sarebbe suicidata. La rassicurai che non sembrava proprio il caso e comunque le garantii il mio appoggio se queste vessazioni psicologiche fossero continuate.

L’articolo 19 della Costituzione garantisce la libertà di culto, sacrosanta. Ma dove finisce il culto, per quanto minoritario e magari stravagante, e comincia una setta pericolosa?  Tracciare i confini non è molto facile, e su queste ambiguità Scientology, fondata dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard, benché sia stata oggetto di molte vicende giudiziarie in diversi Paesi del mondo, opera con successo economico notevole anche in Italia.

Per orientarsi e informarsi è utilissimo il libro Nella setta, di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, due giornalisti coraggiosi che hanno fatto un’inchiesta approfondita su diverse organizzazioni: DammanhurSoga GakaiUnione Punto Macrobiotico e molte altre. In alcuni casi – vedi la vicenda giudiziaria de Il Forteto, vicino a Firenze – hanno dimostrato pericolosi intrecci tra affari, politica fiorentina e supposte attività assistenziali. Hanno raccolto dati, testimonianze di fuoriusciti, si sono introdotti di persona in queste associazioni, consultato documenti.

Il quadro è inquietante: moltissime le vittime che si sono rovinate , sia economicamente che psicologicamente. Abbiamo detto che i confini tra un culto, una setta e un’associazione a delinquere possono essere confusi. Aspirazione spirituale, ingenuità, credulità popolare, fragilità psicologica? In fondo il desiderio di miracoli ha sempre incontrato madonne che piangono, guaritori spirituali come Mamma Ebe che si approfittavano della fiducia dei seguaci.

Qua però si parla di sette, e pur nel vuoto legislativo, ci sono certamente dei reati difficili da perseguire. Al ministero dell’Interno esista una Sas, squadra antisette, ma lamenta molte difficoltà di intervento. Il reato di plagio non esiste più ed è un bene perché era troppo vago, ma bisogna trovare una fattispecie che renda penalmente perseguibili certi comportamenti: questo è compito del legislatore. Talvolta si è parlato di riduzione in schiavitù, ma poiché le persone sembrano consenzienti, sarà molto difficile incastrare questi e queste pseudoguru.

Ma come si fa a capire se noi o i nostri cari sono finiti in una setta pericolosa? Propongo alcuni criteri su cinque coordinate: potere, denaro, sessualità, restrizioni alla libertà di comunicazione con le famiglie, comportamento con chi esce o vuole uscire.

1. Potere. Il capo o guru decide tutto, la struttura è rigidamente piramidale esistono regole che definiscono minuziosamente cosa l’adepto deve fare, anche in materia di sessualità, educazione dei figli, lavoro. Gli adepti sono privati del potere decisionale su molti aspetti delle loro vite.

2. Denaro. Gli adepti devono conferire i loro beni o lavorare per salari da fame che di fatto impediscono ogni autonomia.

3. Sesso. Il capo esercita anche un potere sessuale , sia personalmente che decidendo chi deve fare cosa con chi

4. Contatti esterni. Si tende a scoraggiare il contatto con “quelli di fuori”, cosa che può arrivare a livelli patologici, quasi una paranoia di massa: vedi il suicidio colletto dei seguaci di Jim Jones in Guyana, o gli esiti della comunità di Osho in Oregon. Se sono presenti questi elementi, l’aspirazione alla spiritualità degli adepti è sfruttata per fini personali, che configurano anche reati. Le persone sono in pericolo. Si incoraggia però fortemente il proselitismo, che fa avanzare di grado chi porta dentro più gente, i cosiddetti reclutatori ? Questo è il caso di un santone pugliese che, tra maratone di preghiera, apparizioni dell’ostia e altri fenomeni, cerca di ampliare la sua sfera di influenza.

5. Uscite. Per chi esce si va dall’ostracismo totale alla diffamazione e anche alle minacce. Non si deve parlare con giornalisti, psicologi e psichiatri. Molte delle testimonianze raccolte nel libro trasudavano paura. Non è facile venirne fuori, tra sensi di colpa, un’identità messa in crisi dal lavaggio del cervello di anni, una sudditanza economica, la perdita della rete di contatti familiari e sociali.

Anche di recente un genitore preoccupato per la sorte di un figlio ci ha chiesto aiuto: ci si può rivolgere a delle associazioni che si occupano di queste situazioni, per esempio il Cesap, Centro studi abusi psicologici, il Gris di Torino, l’Onap, Osservatorio nazionale abusi psicologici. È fondamentale che il governo si impegni perché il vuoto legislativo alimenta l’impunità. Ci sono state interrogazioni parlamentari, ci auguriamo davvero che abbiano un seguito.


Noi italiani siamo razzisti o no? La risposta non è scontata

30-08-2018

Noi italiani siamo razzisti o no? La risposta non è scontata

Il colore dei morti conta, nel Mediterraneo casca un ponte ogni giorno e giriamo la testa da un’altra parte, quei morti non sono più una notizia. Magari qualcuno pensa e dice al bar: “Se la son voluta, era meglio se stavano a casa loro”. Altri provano uno sgomento impotente. Poi c’è qualcuno che va al porto per testimoniare solidarietà umana e sulla banchina ci sono anche quelli dei respingimenti, i militanti di Forza Nuova che hanno trovato in Salvini il loro uomo forte, magari poco saggio ma forte, altro che la Meloni.

Allora, noi italiani siamo razzisti o no? Purtroppo non è una domanda da quiz, nessuna delle alternative è la risposta esatta. Lasciamo stare la scienza e in particolare la genetica che ha levato ogni fondamento alle teorie razziali da tempo. Qua è questione di pancia e di cuore, la testa arriva dopo, quando arriva.

Diciotti, scontri tra manifestanti e polizia alla manifestazione

Per capire di più dobbiamo andare indietro moltissimi anni, quando negli stati americani del Sud accadevano i linciaggi dei neri. Uno studio sociologico ha mostrato una correlazione precisa con la scarsità del raccolto del cotone. Ovvero quando la distanza economica tra il bianco e il nero si assottigliava, la frustrazione dei bianchi poveri andava verso gli ultimi, i neri, i diversi, per marcare la propria identità e diventava furore che esplodeva alla prima occasione. Meno cotone, più linciaggi: matematico.

Tutto questo si è sempre appoggiato su pregiudizi senza alcun fondamento. I neri puzzano? Per gli asiatici sono i bianchi che puzzano – per l’esattezza puzzano (puzziamo) di cadavere -, per gli americani che ricevevano gli emigranti italiani a Ellis Island erano questi a puzzare. Sono stato fatti perfino esperimenti per dimostrare l’inconsistenza di questi pregiudizi, chi vuole saperne di più legga un classico della psicologia sempre attuale: La natura del pregiudizio di Gordon Allport.

Hanno fatto odorare dietro una tenda degli sportivi bianchi e neri dopo l’allenamento (e prima della doccia): non ci hanno indovinato, non più del casuale 50%. Il razzismo cresce con i numeri e gli arrivi. Ricordo invece 30 anni fa la cordiale curiosità in un paesino dell’appenino modenese, per Alì, venditore di tappeti, con anche qualche domanda “culturale” sulle sue credenze. Ma erano ancora pochi gli immigrati e questo fa una grande differenza.

Si è visto anche studiando i ratti che l’aggressività intraspecie scatta con l’affollamento, quando il numero supera una certa massa critica e lo spazio vitale si riduce. È il nostro caso? Sì e no: sappiamo che vi è una sovrastima della presenza straniera, se chiedete in qualsiasi bar vi parleranno del 20-30%. “Son più loro che i nostri !”, giurava una donna. Ma conta la percezione, non la realtà. E conta il pressappochismo dei governi degli ultimi 30 anni che non sono riusciti ad accogliere con dignità chi doveva essere accolto e rimpatriare i delinquenti. Oggi i migranti valgono voti e tutti si muovono facendo calcoli. Bisogna dare atto alla Merkel di essersi presa grandi rischi dicendo (parafrasando): “La Germania è un grande paese e può accogliere 800mila persone“.

È interessante che quasi nessuno voglia essere chiamato razzista, almeno pubblicamente. C’è un punto fondamentale: non ci si deve dividere tra razzisti e antirazzisti, ma tra razzisti, antirazzisti e non razzisti.

Tra i non razzisti troveremo molte persone spaventate dal mutare dei quartieri, dalle lingue che non si capiscono, dalle usanze che non si conoscono e neanche si vogliono conoscere: vorremmo semplicemente che lo straniero si uniformasse alle nostre usanze e restasse gradevolmente invisibile, salvo nei campi dove si raccolgono i pomodori a due euro l’ora. Ma tanto chi li vede lì è ben contento che ci siano, caporali al servizio di proprietari che commettono un reato di sfruttamento ogni mattina.

E chi di noi non razzisti o antirazzisti non prova imbarazzo di fronte al ragazzo che ti aspetta alla porta del supermercato e ti lascia sempre incerto tra il far finta di non vedere, allungare una moneta, chiedere in cambio simbolicamente un servizio: mi porti le borse in macchina? Chiedere il nome, da dove viene, magari perché è qua. Wisdom è nigeriano e cristiano, mi ha spiegato che lo avrebbero ucciso con altri cristiani nella chiesa, se fosse restato: Bokol Harum per lui è memoria di tragedia vista. Ha 26 anni e pensa che tutto sarà molto facile, qui. Vedo che il giornalaio gli fa sistemare le riviste negli scaffali, un altro negoziante lo fa spazzare davanti al negozio.

Forse c’è speranza, auspico che non intervenga subito la burocrazia che tollera il caporalato e magari stanga chi si fa aiutare in giardino per due ore. E chi si fa aiutare una volta non teme di ritrovarsi alla porta una coda di persone che chiedono lavoro? Quante riserve mentali, anche legittime dentro di noi. Chi non si è stufato sulla spiaggia al 20esimo ragazzo che ti vende teli?Chi si è vergognato di un piccolo sollievo provato nel vedere un proprietario di ristorante che allontanava con gentilezza un venditore un po’ insistente, un po’ aggressivo? A me è capitato e capita e mi sento in contrasto con me stesso, e anche un po’ confuso sui miei valori.

Italiani com noi, bisogna combattere gli ambulanti

Ma la vergogna più grande l’ho provata quando la proprietaria di un bar trattoria di Arezzo ha insultato un magrebino che veniva per la seconda volta, con parole che non avrebbe mai osato dire a un italiano. Non ci sono più andato per cinque anni, finché non è cambiata gestione, ma il mio silenzio di allora mi pesa. Siamo onesti, bisogna fare i conti anche col piccolo razzista, o il piccolo vile, o il piccolo menefreghista che è in noi. In fondo c’è sempre la piccola paura di perdere qualcosa.


Bob Dylan, quelle lettere d’amore che Françoise Hardy non lesse mai

24-04-2018

È una strana storia Bob Dylan, non finisce di stupirci da decenni. Il proprietario del bar dove si rifugiava a scrivere da ignoto adolescente, raccoglie le lettere mai spedite che Bob scriveva a Françoise Hardy.

Lei cantava “Tutti i ragazzi che han la mia età se ne vanno mano per la mano”, con una grazia struggente, un po’ eterea, per di più a piedi scalzi. Bob – che immagino brufoloso e non ancora star – ne fa la sua Beatrice, giustamente irraggiungibile, tanto che le lettere finiscono appallottolate nel cestino del bar. Qua c’è il colpo di scena: il barista – che deve avere intuizioni paranormali – le conserva per decenni e quando muore saltano fuori. Lui aveva già capito che avrebbe preso il Nobel per la letteratura, mica il Telegatto.

Capita non di rado che si scelga come oggetto d’amore una star e – se non si precipita nell’incubo dello stalking – è un modo romantico di innamorarsi dell’Amore. Così possiamo proiettare con comodo e senza rischi tutte le nostre fantasie sull’uomo o sulla donna ideale. Meglio se irraggiungibile; anzi, è bene che resti tale, perché nessuno è all’altezza delle nostre fantasie.

Qua però arriva un nuovo colpo di scena: passano gli anni, Françoise Hardy adora le sue canzoni, ormai è famoso. È il 1966, viene sapere di un suo di un suo concerto a Parigi e fa di tutto per andarci: sta girando un film e convince con molta fatica il regista a darle un permesso. È fatta. Dylan non è più Bob, ha il fascino del poeta scontroso e geniale, sta con donne bellissime e – guarda caso – cantanti. Mi ha anche soffiato Joan Baetz che amavo prima io, dai tempi di Woodstock.

La immagino arrivare trafelata ed emozionata, piena di aspettative. Una visita in camerino, complimenti reciproci e vai, si parte. Ma lui le pare così magro da farle sospettare una malattia terminale, il concerto è deludente, perfino brutto, le loro strade si dividono di nuovo, temo per sempre. Tutto questo lo racconta lei, ora che sono saltate fuori queste lettere non spedite. Ci va giù duro la cantante-attrice – direi anche con poca eleganza – in un’intervista radiofonica.

Dylan si offenderà? Se non rispondeva ai signori che lo cercavamo per dargli il Nobel, credo che non risponderà neanche a lei. Peccato, la storia avrebbe riempito paginate di riviste sugli amori delle star, anche se un po’ anziane, sono passati cinquanta anni. Maria De Filippi avrebbe sognato di portarli nelle sue trasmissioni: l’amore ritrovato.

Ma anche nel caso di una devozione artistica è meglio fermarsi all’opera, chi la crea spesso può deluderci.

Sarei andato a piedi a incontrare Hermann Hesse e non mi avrebbe fatto piacere scoprirne la tirchieria o la freddezza con i figli. Francesco De Gregori ama la musica di Dylan al punto di aver tradotto e cantato in un disco le sue canzoni. Si è poi ritrovato con lui al Summer Festival di Lucca, cantavano nella stessa serata ma separati. Ha avuto la saggezza di scappare la mattina dopo senza incontrarlo. Pare che Dylan volesse conoscerlo. Si contenti di scoprire le sue canzoni. Gli idoli vanno adorati da lontano.


Negozi senza cassa, home banking e scimmie clonate. Dove finiscono le persone?

09-02-2018

La scomparsa dell'umano

Entri nella banca dove sei cliente da sempre: all’ingresso una macchina, dove si spera tu ti fermi per fare ciò che sei venuto a fare. Se passi quella porta trovi un impiegato che ti porta a un’altra macchina, a fare l’operazione che una volta faceva lui. Uno solo, in trincea, a difendere la banca dai clienti. Non usi l’home banking?

Hai un problema con la Vodafone, ci metti giorni a raggiungere un umano dell’assistenza, dopo innumerevoli attese, algoritmi decisionali, musichette che si concludono con l’invito a riprovarci.

Amazon crea il negozio senza cassieri.

Posti di lavoro che scompaiono, ma dove finiscono quelle persone? Davvero si crede che questo sia efficienza? Risparmio sì, ma efficienza vera no. Noi siamo animali sociali, vogliamo discutere col libraio, scegliere l’impiegato di banca che ci sembra più bravo o più simpatico, essere visti ed ascoltati.

E ora la riflessione su una notizia che sembra non c’entri: la clonazione delle scimmie cinesi. Gli studi di Harlow sulle scimmie separate alla nascita dalla mamma sono di molti anni fa: le scimmie abbandonate non riuscivano a prendersi cura dei piccoli, avevano seri problemi ad accoppiarsi, erano insomma psicologicamente malate. Come saranno quelle clonate? E perché si fa questo? Per mangiarle? Per i “pezzi di ricambio? Come prova verso obiettivi più ambiziosi?

Mi pare ovvio, considerando la vicinanza genetica con le scimmie, che qualcuno stia già clonando gli umani. E magari proprio in Cina, dove essere individui è poco gradito. E che ne faremo di questi umani? Mi vengono in mente i soldati di terracotta, l’armata dell’imperatore nel mondo dei morti. Mi vengono in mente le tute tutte uguali.

Il mito di Frankestein che si avvera. Con gli stessi esiti, immagino.

Colpisce anche che quando fu clonata la pecora Dolly il dibattito fu ampio; stavolta la notizia è stata dimenticata alla svelta, soppiantata dalle analisi delle liste, dalle promesse elettorali. A proposito, propongo di non votare chiunque voglia ridurre le tasse, spendere soldi che non ci sono ed elargire mance varie. Ci si rivolge al particulare perdendo di vista il collettivo, cioè una volta di più le persone.

E che dire dell’indifferenza per i morti nel Mediterraneo: ci preoccupano quelli che arrivano, anche con buone ragioni, non quelle donne e quei bambini. Nessuna empatia, non proviamo neppure a pensare cosa significa indebitarsi per mandare via un “minore non accompagnato”, perché si salvi. Ho un figlio di sedici anni: provo a pensarlo su un barcone che lo porta che so, in Spagna, con 300 euro in tasca.

Ci giriamo dall’altra parte. Ogni mattina incontro di fronte al bar Wisdom, un ragazzo nigeriano. A volte ci parlo e gli offro la colazione, a volte me ne libero con una moneta, a volte spero che non ci sia o passo di fretta con un cenno stiracchiato di saluto. Quindi non so più se sono di destra di centro o di sinistra, se sono cristiano, buddista o menefreghista; dipende dalle giornate. Vorrei fargli fare qualche lavoretto invece di dargli monete umilianti, ma temo poi di trovarmelo sempre sotto casa. Sento che la scomparsa dell’umano è un virus che porto in me.


Dr. Dalai Lama, psicologo in Pisa

27-09-2017

Dr. Dalai Lama, psicologo in Pisa

Chi se lo sarebbe immaginato mai di vedere il Dalai Lama in tocco e toga per ricevere la laurea honoris causa in psicologia clinica e della salute? Eppure questa non è la solita onorificenza formale data, oltre che a chi la riceve, a chi la conferisce. Mica male avere un altro Nobel tra i propri laureati, alla faccia dei cinesi che cercano sempre di mettere i bastoni tra le ruote a ogni iniziativa che coinvolga il leader spirituale dei buddisti.

Il Dalai Lama lo merita perché da molti anni promuove il confronto tra scienziati occidentali e la cultura filosofica e spirituale tibetana che, nel corso di venticinque secoli, ha elaborato una raffinata psicologia.

L’Università di Pisa e l’Istituto Lama Tzong Khapa hanno messo a confronto fisici, neuroscienziati, filosofi occidentali e pensatori tibetani: il tema era la scienza della mente e in particolare il problema della coscienza: epifenomeno del funzionamento del cervello o entità che “usa” il cervello? Ipotesi dualistica o riduzionismo? Se ne dibatte da decenni e lo sviluppo delle tecniche di studio del cervello fanno rapidi avanzamenti.

Sotto questo aspetto è stata interessantissima la presenza del francese Matthieu Ricard, monaco buddista laureato all’Istituto Pasteur in genetica delle cellule, diventato popolare per essere indicato come “l’uomo più felice del mondo” dopo che gli scienziati hanno riscontrato un livello di attività mai registrato prima nella zona del cervello connessa con l’emozione positiva e la una particolare capacità di orientare la mente a piacimento durante la meditazione. Erano presenti anche gli scienziati che hanno esaminato Ricard.

La pratica millenaria della meditazione si sta sempre più diffondendo, anche se viene talvolta banalizzata e commercializzata.

Inserire il fenomeno della coscienza nel paradigma quantistico è un’ipotesi di ricerca che può consentire grandi passi avanti. L’interdipendenza di tutti i fenomeni dovrà per forza includere la mente. Roberto Assagioli, 50 anni fa, ipotizzava per la Psicosintesi lo sviluppo di una psicoenergetica che includesse fisica, chimica e psicologia.

Detto questo, si sono proposti diversi modelli epistemologici per inquadrare il fenomeno coscienza, ma siamo ancora ben lontani da una comprensione piena.

I tibetani, che hanno seguito la via dell’introspezione per osservare la mente, possono dare un contributo formidabile.

Mi resta anche un’osservazione sorridente, non troppo diplomatica, del Dalai Lama: “La psicologia occidentale è ancora al kindergarden, giardino d’infanzia”. Temo che abbia ragione, ma quindi abbiamo ancora tutta la vita davanti e il contributo del nuovo collega neolaureato a Pisa sarà prezioso.

(La foto è tratta dal sito dell’Università di Pisa)


Bolivia: guaranì, non chiamateli indios

29-06-2016

Bolivia: guaranì, non chiamateli indios

CuevoBolivia del sud: che ci fanno un frate di Chiusi della Verna e un artista medico fiorentino? Ci fanno sanità, ci fanno educazione, ci fanno arte. Siamo una zona rurale povera, dove vivono molti Guaranì. Ricordate Mission, con Jeremy Irons nelle parti del prete e De Niro nelle parti del capitano Mendoza, cacciatore di indios pentito? Indios è l’appellativo generico e sbagliato dei conquistadores. L’errore di Colombo fa sì che tutte queste popolazioni indigene che hanno nomi, lingue, tradizioni e cosmogonie diverse, finissero sotto questa etichetta che a noi sembra innocua, a loro dispregiativa. Alla fine, i Guaranì si vergognavano della loro identità “inferiore”, assumevano nomi spagnoli e non insegnavano più la loro lingua ai figli, per favorirne l’integrazione.

zaza

Quando il francescano, Tarcisio Ciabatti, di Chiusi delle Verna è arrivato qui, quaranta anni fa, “i bambini morivano come le mosche, i vaccini non glieli faceva nessuno”. Bisognava cominciare da lì. Con l’aiuto dei medici dell’Università di Firenze e Catania, è stata creata una scuola di formazione paramedica. Maestri guaranì si sono fatti assumere nelle fattorie dei latifondisti e la notte insegnavano, segretamente, di nuovo, lingua e tradizioni alla loro gente. La stessa chiesa che li aveva traditi li ha aiutati. Prima di tutto la sopravvivenza, poi l’educazione, e infine l’arte. E’ un popolo che ha il dono della musicalità, sono rinate le scuole di musica e liuteria. Si suona musica barocca “moderna”, non solo quella portata dai gesuiti. I guaranì dicono convinti che violini e viole sono strumenti tradizionali indigeni:

I guaranì, che vivono in BoliviaBrasile e Paraguay, sono stati massacrati non solo dagli europei, ma anche dai latifondistiche gli hanno rubato le terre e li hanno resi schiavi nelle loro fattorie. In una chiesa vicina a Cuevo ho visto la statua di un cavaliere spagnolo che schiaccia, sotto le zampe del cavallo, un nativo, pronto poi a trafiggerlo. La stessa chiesa che li aveva traditi ha contribuito a un riscatto della loro identità. Padre Ciabatti, ottanta anni, dice che c’è una religiosità molto più profonda della nostra, fatta di grande comunione con la natura. La cosmogonia della Tierra sin mal è un mito magnifico e complesso. Tra i medici di Firenze c’è Mimmo Roselli, artista di fama internazionale. Perché non creare una scuola d’arte di alto livello? Non solo musica e tessitura, ma arte visuale contemporanea. I Francescani ci hanno creduto e in una missione restaurata c’è stato il primo festival internazionale di arte, per lanciare il progetto.

Roselli ha invitato scultori, pittori e artisti visuali a passare tre settimane a Santa Rosa de Cuevo. In questo spazio suggestivo, strappato all’abbandono, hanno lavorato gratis per creare opere con i materiali locali, che rimangono sul posto. La mattina da soli, il pomeriggio facendo partecipare gli studenti del posto al loro lavoro, insegnando, spiegando. Artisti coreani, brasiliani, caraibici, giapponesi, boliviani e naturalmente Mimmo Roselli, con le sue funi che tracciano nuovi spazi, esposte a Venezia come a New York. Dapprima sono arrivati i bambini, poi gli adolescentipoi gli anziani del paese. Io ho fatto scrittura creativa e autobiografica con i ragazzi della scuola superiore. Quando hanno esposto i loro scritti al festival hanno inaspettatamente decorato i fogli con una finezza straordinaria: anche la scrittura è diventata arte visuale.

sasa

Si spera che il governo di Morales apra una scuola d’arte permanente. L’arte si fa con tutto e dappertutto, dice Roselli. La prima sera del festival faceva freddo, per arrivare alla missione bisogna camminare tre chilometri nella notte. Quando tutto il paese è venuto alla rappresentazione teatrale, ai concerti, all’esposizione, ho capito che l’artista medico e il frateavevano vinto la loro scommessa visionaria. Da queste parti è stato ucciso Che Guevara, c’è chi da bambino lo ha incontrato, ma questa è un’altra storia.


Metropolitana di Milano

01-12-2014

In piedi nella calca si leggono lepubblicità. Mi colpisce l’immagine di una cicala e l’esortazione: “Vivi da cicala, tanto c’è l ‘Outlet dei funerali'; 1.499 euro tutto compreso”. Insomma, spendi tutto, o al massimo lascia questa piccola somma per gli eredi e muori soddisfatto.

Il termine outlet è geniale, dà già l’idea del grande affare, effettivamente il prezzo è conveniente, tutto compreso, ed evita quelle scene penose del parente, magari figlio o moglie, a cui vengono proposte bare che costano quanto automobili di piccola cilindrata dalle classiche agenzie funebri, quelle che sanno prima di te che sei morto, e guardano il parente affranto con una espressione leggermente disgustata e colpevolizzante se uno timidamente dice:per me è troppo cara. In un film di Verdone ho rivisto la grottesca, macabra trattativa e ho riso un po’ verde; non era troppo lontano dalla realtà. Per inciso, spesso le bare arrivano dalle foreste indonesiane e consentono ottimi guadagni.

Mi chiedo se, come in ogni outlet, ci siano dei periodi in cui i saldi sono più convenienti, in maniera tale che il cliente si possa organizzare per finire i soldi al momento giusto, o decidere di sopravvivere finché morire non è un affarone. Oppure potrebbe essere congelato e portato all’agenzia quando i prezzi calano.

Del resto un tradizionalista geniale, Guido Ceronetti, scrive nel suo ultimo libro L’occhio del barbagianni che i funerali di oggi sonofrettolosi, è scomparsa la ritualità complessa che aiutava i parenti e forse il morto nel suo passaggio nel mistero: “affrettati, ridotti al minimo, paternoster da telefonino, abolita la veglia, una corsa dal frigorifero al cimitero”.

Il frigorifero della cicala, che pensa solo a sé. Sia chiaro: la formica della favola è piuttosto antipatica, saccente, invidiosa e vendicativa, ma non esageriamo col consumismo funebre. Forse Ceronetti ha letto il messaggio sulla metro. Non credo, ma con le antenne dell’artista è come se lo avesse fatto. Accanto, proprio accanto, nello stesso vagone, un’altra agenzia si rivolgeva ad altri clienti, ma di un target assai differente: gli ecologisti puri, a cui veniva assicurata una bara in legno naturale, senza alcuna vernice chimica. Questo faceva morire l’ecologista più sereno, non ne dubito, e lo rassicurava dell’impatto zero su Gaia, il nome della terra come dea nella mitologia greca. E così si parla di Gaia funeral, l’intenzione è buona ma l’effetto un po’ stridente, paradosso cercato ma non tanto riuscito. Devo dire che non ho visto nessuno appuntarsi i numeri di telefono e quando sono riemerso alla luce dall’Ade metropolitana, ho ricordato la fiera bellezza dei funerali indiani, la cura del passaggio dei tibetani, il persistere soprattutto al sud di tradizioni che aiutano i parenti del defunto, magari portando il cibo per giorni.

E mi è venuto in mente Matteo, un novantenne che viveva in un’isoletta croata priva di alberi, Uniye in cui in molte soffitte si teneva una bara, viste le difficoltà di approvvigionamento. I proprietari erano giovani e Matteo, loro amico, chiese se gli potevano vendere la bara.

I ragazzi volevano regalargliela ma bisognava essere sicuri che andasse bene: Matteo era piuttosto alto. Una sera venne a provarla, ci si distese a braccia incrociate. Gli stava benissimo, convenimmo tutti che era perfetta e di notte attraversammo il paese trasportando a spalla la bara vuota, mentre Matteo la seguiva. Morì due anni dopo.


Identità nazionale, cultura e paura

07-05-2014

Fino a 30 anni fa identità nazionale e culturale coincidevano, le minoranza c’erano ma i numeri esigui non erano tali da mettere in crisi nessuno. Le grandi immigrazioni dall’Africa, dall’Albania, dall’Europa dell’Est ci hanno colti impreparati, come al solito, come era accaduto negli anni sessanta per le immigrazioni interne. La percezione dell’altro come diverso , forse pericoloso, e’ stata facilitata dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione , dagli usi diversi.

Il fatto poi che importassimo anche una certa criminalità ha avuto un impatto emotivo formidabile, in una percezione di pericolosità molto sproporzionata rispetto alla realtà.

Oggi secondo stime confermate da più fonti ci sono forse 400000 persone che sulle sponde libiche aspettano di imbarcarsi . Poiché ormai tutti i migranti sanno i rischi che corrono, è evidente che la disperazione che spinge questa migrazione è talmente grande da renderla inarrestabile. Cosa dobbiamo fare ? Le dighe legali o poliziesche non fermeranno uno tsunami. Lo scandalo delle rivolte con le bocche cucite, le attese interminabili nei centri di accoglienza li abbiamo rapidamente rimossi. Ci si arrocca in identità localiste per paura di perdere la propria, di cedere terreno. Le identità culturali ci sono e sono ricchezza, ma quando diventano identificazioni, stampelle dell’io, sono un pericolo psicologico, anzitutto per chi le vive. E dal pericolo psicologico al pericolo sociale il passo è breve. Pensate alla caccia all’assassino forestiero per Yara.

Oltre ai provvedimenti legislative e all’ accoglienza possibile l’Europa deve attrezzarsi culturalmente : altri paesi hanno già fatto questa esperienza con le ex colonie, e nessuna ricetta è facile.

Negli anni settanta c’era qualche studente eritreo nelle scuole  : erano pochi , bene integrati nelle classi. Uno di questi, Brahn Tesfa è diventato scrittore ed editore: ha scritto un libro spigoloso , Specchi sbagliati” (edizioni SUI), che mi ha fatto molto riflettere, al di là di ogni considerazione letteraria. E’ una storia di seconda generazione, che racconta il conflitto degli adolescenti nati e cresciuti in Italia con se stessi, con la loro famiglia, con gli Italiani più o meno consapevolmente razzisti ( imbarazzismi è il neologismo di un medico del Togo, Kossi Komia Ebrè) . Essere integrati non vuol dire essere assimilati, occorre un confronto e una condivisione, dove le differenze, le frontiere culturali siano non solo separazione ma anche suture, partendo dal considerarsi terrestri prima di italiani, marocchini e albanesi.

Nei tempi di crisi economica ci si incattivisce, i linciaggi dei neri nel sud degli Stati Uniti aumentavano negli anni di carestia, quando i bianchi poveri si trovavano ad essere nella stessa condizione di miseria dei braccianti neri. La vera integrazione riguarda tutti e richiede differenze, conoscenza, mediazione culturale e condivisione, Molto passa attraverso la condivisione del cibo e del sacro. Ma di questo bisognerà parlare un’altra volta.


Il corpo forzato

07-05-2014

Discussione sulla bellezza fisica dalla Bignardi, a Le invasioni barbariche. Una chirurga plastica che sembra Jackie Kennedy imbalsamata sostiene che le persone la fanno non per diventare diverse da ciò che sono, ma per essere pienamente se stesse, normali . Peccato che parli delle se stesse che erano venti anni prima : “ combattere l’invecchiamento, proibito imvecchiare”. Una guerra che si perderà sicuramente e farò un solo prigioniero : chi la combatte. Gli effetti sono spesso disastrosi : Berlusconi sembra un vecchio mandarino cinese, Laura Antonelli distrutta fa causa al chirurgo.

Si comincia presto : le ragazze chiedono un seno terza misura per il diciottesimo compleanno, mamme magari liftate e nonni dai capelli corvini pagano.

Vecchio è un insulto, e lo si ammette solo quando si è decrepiti. “Sono già un uomo vecchio, ho molti nipoti”, mi diceva orgoglioso un contadino peraltro in ottima forma, in Indonesia : avrà avuto sessanta anni, e ci stava bene dentro. E Anna Magnani raccomandava al truccatore di lasciarle le rughe, che ci aveva messo una vita a farsele.

Una volta feci un viaggio in treno con due trans che da Bari andavano a Firenze : uno voleva il mento più tondo, l’altro le labbra turgide. Era il terzo intervento dell’anno per tutti e due: “ho speso ventimila euro e poi magari piglio una mattonata in faccia “ . Essere nel guado dell’identità non è cosa facile.

Ma ci sono altre maniere di ridurre il corpo a un forzato in catene : nella sua bella autobiografia, Open, il tennista André Agassi racconta che a venti anni ha già il polso destro usurato e la schiena a pezzi per i feroci allenamenti a cui lo ha sottoposto fin da bambino il padre padrone. La descrizione dei dolori prima e dopo una delle ultime partite sembra racconti un vecchio caduto dal secondo piano. E ha 36 anni.

I cicloamatori della domenica si dopano, i body builder delle palestrine di provincia prendono gli steroidi, . Il corpo forzato non prevede futuro o si ancora al passato. E i calciatori si ammalano di strane malattie a carriera finita.

Dietro l’ossessione del presente bello e vincente si nasconde , neppure troppo bene, la paura della morte.


Capolona trenta anni dopo

15-04-2014

La prima volta che sono arrivato a Capolona era il 1973. Da due anni mi interessavo di Psicosintesi e, grazie a Piero Ferrucci, avevo conosciuto Roberto Assagioli. Ricordo bene che mi fece un'impressione curiosa: era un bel vecchio distinto (a quel tempo aveva 83 anni) e io non ero abituato all'incontro con persone così anziane. Non so come, mi fece parlare molto di me, dei sogni che avevo, delle mie aspirazioni e mi invitò ad andare a trovarlo quando volevo. Io non sapevo bene perché, ma lo facevo. Andavo a Firenze, facevo la mia psicosintesi personale con Piero Ferrucci e poi salivo le scale di questa palazzina di Via San Domenico per incontrare il Dottore. A quel tempo studiavo legge e la psicosintesi mi faceva esplorare territori di cui non conoscevo l'esistenza, pur riconoscendoli come familiari. Assagioli mi dava dei libri da leggere, mi insegnava la meditazione, il tutto senza alcun atteggiamento di condiscendenza o superiorità. Mi colpì la dedica che mi scrisse sul suo libro "Psicosintesi, armonia della vita": "All'amico Andrea Bocconi". Cominciai a rendermi conto che vi erano tanti modi di essere amici, e non solo quelli tipici di un ventenne. La sua era un'amicizia dell'anima, anche se si sorbiva non solo le mie aspirazioni, ma anche tutte le mie vicende sentimentali di ventenne nei nostri incontri preziosi.
Nella primavera del '73 Piero Ferrucci mi disse: "Ho una grande notizia per te: quest'estate puoi andare a Capolona a fare da segretario ad Assagioli per un mese".
Io mimai un entusiasmo che non provavo fino in fondo, fare il segretario al Dottore in un paesino della campagna toscana mentre tutti i miei amici erano al mare o in viaggio non era esattamente nei miei piani. Eppure dissi di sì.
Mi ritrovai così a La Nussa, la casa di Assagioli, dove ospitava me e alcuni degli studenti che venivano a trovarlo da varie parti del mondo. Mi resi conto che c'era chi attraversava l'oceano per avere quegli incontri che per me erano così facili. L'atmosfera era molto stimolante e assai eterogenea: per nazionalità, età, retroterra culturale. In comune queste persone avevano una ricerca interiore che li aveva avvicinati al lavoro di Assagioli, magari attraverso il libro "Psychosinthesis" che era stato uno dei libri fondanti della psicologia umanistica e transpersonale.
Strano destino quello di Assagioli, protagonista di due rivoluzioni della psicologia, quella psicoanalitica all'inizio del 900 e quella della psicologia umanistica negli anni sessanta: dalla psicoanalisi si distaccò presto, benché Jung e Freud pensassero a lui come a un possibile "ambasciatore in Italia" della nuova disciplina. Sua fu la prima tesi in psicoanalisi italiana, quando si laureò in medicina, per poi specializzarsi in psichiatria studiando al famoso ospedale Burgholtzi di Zurigo ove strinse un'amicizia con Jung che durò vari decenni. Quando la psicoanalisi diventò "rispettabile" se ne era già allontanato. La psicosintesi, con l'attenzione centrale che ha per l'aspetto spirituale dell'uomo era troppo avanti per alcuni, e sospettata di essere troppo indietro da altri. E così mentre la rivista americana Psychology Today dedicava ad Assagioli una lunga intervista nella serie che dedicava ai grandi personaggi del secolo, la corrispondente Italiana Psicologia Contemporanea, stampata a Firenze, dove lavorava, di quel numero riprendeva anche la copertina, oltre a vari articoli, ma non l'intervista di Sam Keen ad Assagioli. Insomma, ai tempi dei seminari di Capolona Assagioli era molto più conosciuto all'estero che in Toscana.
Il legame con Capolona era fortissimo, e non solo per la famiglia della moglie. La villetta in collina dove insegnava, meditava e scriveva, si chiamava Villa Ilario, in memoria del suo unico figlio morto per una tubercolosi presa ai tempi della latitanza per le persecuzioni nazifasciste. Era insomma un luogo del cuore, non semplicemente una casa di campagna e anche dopo la morte della moglie Nella Ciapetti, Assagioli continuò a trasferirvisi all'inizio dell'estate, con un movimento biblico di libri che impegnava tutti in faticose confezioni di casse. Fu proprio mentre preparavo questi pacchi nel suo studio di Firenze che sentii un'improvvisa felicità, assolutamente inspiegabile con la noiosa attività che mi impegnava. Rialzando lo sguardo vidi Assagioli sorridente.
Molti degli allievi che venivano ai seminari di Capolona hanno fatto cose egregie per la diffusione della Psicosintesi: penso a Diana Withmore, che ha creato a Londra un centro molto attivo sia nella formazione dei counselor che in vari campi del sociale; penso a Tom Yeomans, che ha svolto un lavoro pionieristico in Russia e in altri paesi, penso a chi ha creato centri in varie parti del mondo. E naturalmente penso agli allievi italiani, Rosselli, Alberti, Ferrucci, Caldironi, Bartoli e tanti altri che hanno espresso la loro visione e comprensione della psicosintesi in modi diversi, dai libri scritti alla creazione di comunità, dal lavoro nei servizi psichiatrici, a quello nelle scuole, nei carceri etc.
Insomma, ritrovarsi a Capolona questo pomeriggio, dopo la fruttuosa mattinata del convegno presso la Biblioteca Città di Arezzo, per certi versi è sorprendente. Nella visita a Capolona riemergono memorie di quei tempi segnati soprattutto dalla generosità a tutti i livelli di Assagioli. Ricordo che volle a tutti i costi rimborsarmi le spese di vitto, dicendomi: i conti giusti fanno le buone amicizie. Ma ero io in debito con lui per l'opportunità di crescita e di formazione che mi offriva, e lo sapevo anche allora.
Questo lungo intervallo temporale, che mi ha portato dalla giovinezza alla mezza età, mi stimola anche a considerare che cosa è cambiato nella teoria e nella prassi psicosintetica in questi trenta anni, da quel 1974 in cui Assagioli morì serenamente a Capolona, circondato dai suoi allievi.

La morte del fondatore causa sempre ripercussioni profondissime. Assagioli non solo incarnava il Sé della Psicosintesi, ma ne rappresentava anche il centro unificatore esterno, l'Io a cui tutti guardavano come indiscutibile punto di riferimento. Il Sé non può sparire, ma la scomparsa dell'Io attiva un processo di allontanamento dei pianeti che attorno ad esso ruotano, talora l'emergere di orbite conflittuali, talora la nascita e la scomparsa delle supernove. Con le ragioni più diverse questo si è verificato negli istituti di psicosintesi di varie parti del mondo. Anche se alcune di queste vicissitudini sono state causa di grande sofferenza, mi sembra che nella sua totalità tutto ciò rispondesse ad un bisogno di autonomia e individuazione, prima di riallacciare relazioni inter pares che oggi trovano un sereno terreno di incontro. Lo stesso gruppo di Arezzo Psicosintesi, pur in ottimi rapporti con le altre istituzioni tra cui per prima l'Istituto fondato da Assagioli, rappresenta un'entità autonoma. È poi importante sottolineare che vi sono accenti e stili diversi, mediati dalle diverse culture in cui si impianta la psicosintesi, ma non conflitti teorici su punti fondamentali. Le mutazioni o sono adattative, o, se nascono male, tendono per fortuna ad esaurirsi da sé.
Per quanto riguarda l'applicazione terapeutica della Psicosintesi vi è uno sforzo interessante di trovare tra le varie nazioni degli standard formativi comuni, che garantiscano la qualità di questa preparazione, pur senza centralismi: "Ciascuno coltivi il suo giardino", ricordava Assagioli, che inoltre, con un amore per il paradosso, ricordava che neppure lui rappresentava un'ortodossia psicosintetica. La psicosintesi è stata applicata in campo educativo, anche con progetti di respiro internazionale quali WYSE, un'organizzazione che si propone di offrire un'esperienza formativa intensa a giovani leader del pianeta, persone che possono riportare nelle loro comunità questa visione transculturale e contribuire a quella psicosintesi delle nazioni che era uno dei sogni più belli di Assagioli, così lontano dalla cosiddetta globalizzazione forzata dei nostri tempi. Vi sono stati campi WYSE nei cinque continenti dal 1988 in poi e sono stati occasione di verifica della tenuta transculturale del modello, che consente di lavorare in Africa come in Asia o in Europa, su alcuni "fondamentali" dello sviluppo psicologico sano e pieno di ogni essere umano.
"Pensa globalmente, agisci localmente". Ad Arezzo mi piace ricordare l'attività nel carcere locale, che è consistita in una serie di corsi di scrittura creativa, tecnica che si proponeva di dar voce a chi non l'ha, ed aiutare persone svantaggiate sia culturalmente che socialmente a trovare nuovi aspetti di sé.
Oggi che sono uno psicosintesista di mezza età, e uno degli ultimi che ha potuto studiare con Assagioli, il futuro proietta la sua ombra già molto al di là della mia persona, mi chiedo quale sarà lo sviluppo che mi piacerebbe vedere.
A mio parere manca un vero approfondimento teorico, soprattutto in alcune aree: la tipologia di Assagioli, espressa sinteticamente ne "I tipi umani", ha delle implicazioni importanti nella psicodiagnostica e nella terapia, e andrebbe sviluppata la relazione con altre classificazioni studiate nella psicologia clinica. Non è stata sviluppata una psicologia dell'età evolutiva in chiave psicosintetica. Manca ancora una riflessione per una psicosintesi transculturale, che affronti i temi sollevati dal confronto e dall'ibridazione tra varie culture. Penso in particolare alla relazione con le varie tradizioni sapienziali che si propongono in modi diversi lo stesso obiettivo dello sviluppo della coscienza: se la psicosintesi non avesse questa capacità di incontro interculturale e transculturale questa sarebbe una negazione dei principi stessi su cui si basa. Il Sé, o è transculturale o non è. Il rapporto con l'arte e con i processi creativi in genere ha ampie possibilità di sviluppo.
Un pensiero fertile continua a crescere, ma i suoi frutti devono essere chiaramente riconoscibili come frutti peculiari di quell'albero. Non abbiamo bisogno né di cloni della psicosintesi, magari chiamati diversamente né di chiamare con questo nome qualcosa di diverso.
A volte mi chiedo cosa direbbe Assagioli vedendoci qui riuniti in questo paese tanto amato del percorso fatto in questi trenta anni passati dalla sua morte. Lo immagino sorridente e lievemente distaccato, dolcemente inamovibile nella volontà di servire.


Risonanza vocale

15-04-2014

È pressoché impossibile descrivere a parole l’esperienza della risonanza vocale. E ciò è dovuto alla natura stessa di tale esperienza, avendo essa a che fare con una modalità di conoscenza diretta della realtà: una adesione e una fusione, volontaria e consapevole, ad un fenomeno che si pone di fronte a noi, senza alcuna mediazione di carattere intellettuale e razionale.

Tale fusione avviene attraverso lo strumento vocale. La voce non è dunque la finalità di questo lavoro, ma il mezzo.
In quanto strumento, ha naturalmente bisogno di essere affinato, reso duttile e responsivo: e ciò può avvenire sia attraverso una pratica, per così dire, “collaterale” che lavori sul corpo e sulla voce dall’esterno, sul piano della consapevolezza tecnica, sia attraverso la stessa pratica della risonanza vocale che lavora sul corpo e sulla voce, diciamo, dall’interno, sul piano della consapevolezza interiore di ciò che sta dietro e dentro i fenomeni.

In fisica la risonanza è descritta come la capacità di un corpo di ricevere, assorbire e ri-emettere le vibrazioni prodotte da un altro corpo che vibra.
Ma si parla anche, nel linguaggio comune, della risonanza emotiva creata da un evento, o dell’essere “sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda” sul piano delle emozioni o del pensiero.
Dunque un evento, qualsiasi sia la sua natura, può creare risonanza.
E noi, in quanto esseri umani, abbiamo la capacità di entrare in risonanza con eventi di qualsiasi natura.
In tal senso, la voce (inscindibilmente collegata con l’udito) non è che uno strumento, molto fine, per esercitare ed allenare la nostra capacità di “sentire” il mondo, nell’accezione più ampia del termine.

Entrare in risonanza e fondersi con l’oggetto della propria conoscenza implica, come si potrà sperimentare attraverso la voce, abbandonare la distinzione classica fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, ed accettare i risultati, costantemente in evoluzione, della relazione fra due soggetti.
Cosa succede, infatti, quando due o più corpi vibranti (due persone con la loro voce, per esempio) cercano di entrare in risonanza gli uni con gli altri?
Se le loro vibrazioni riescono a trovare un equilibrio, senza che nessuna di esse prevalga troppo nettamente sulle altre, possiamo assistere alla nascita spontanea di una nuova vibrazione (nel caso vocale, di una nuova esperienza sonora) generata dalla relazione fra le vibrazioni di partenza.
Questa nuova esperienza sonora sarà continuamente soggetta a fluttuazioni del suo stato generate dalle modificazioni nell’equilibrio fra le singole componenti (le quali, essendo vive, mutano nel tempo).
A loro volta i singoli elementi all’origine della nuova esperienza sonora saranno influenzati dalle variazioni del sistema nel suo complesso.
Il continuo gioco degli anelli di retroazione che si influenzano a vicenda mantiene il sistema in uno stato di equilibrio dinamico in cui non è più possibile isolare le singole componenti e le singole qualità: è solo possibile osservare l’incessante gioco delle relazioni e le situazioni dinamiche che ne derivano.

Nell’esperienza umana, la componente fisica (alla quale tradizionalmente si relazione la tecnica nella pratica artistica) non può essere separata da una componente emotiva e da una mentale: le tre componenti sono inscindibili.
Cercare di entrare in relazione di risonanza con una esperienza fisica quale la voce di un uomo implica necessariamente incontrarsi con la sua emotività e con il suo aspetto mentale.
E questo significa mettere il gioco la propria emotività e il proprio aspetto mentale. E lasciare che da questo incontro si generino nuove esperienze, spostando l’attenzione da noi stessi ad un processo che si compie e si mantiene (pur nella continua trasformazione) per mezzo della relazione attiva e dinamica fra noi e altri individui o altri fattori ambientali.

Spostare l’attenzione dalle “cose” alle “relazioni”: è il principale pensiero di riferimento della cultura del nuovo millennio.
L’esperienza della risonanza vocale viene proposta come modalità di riflessione e sperimentazione pratica di un simile processo.

Gianluigi Tosto


Perdere la faccia

15-04-2014

Perdere la faccia, rifarsi la faccia.

I due ragazzi in treno avevano la faccia stanca: sotto il cerone spuntava la barba. Parlavano ad alta voce ostentando la loro vita da travestiti: uno aveva dei vistosi cerotti. Tornavano da una clinica dove l'incerottato si era operato al mento e commentavano i sodi spesi nei vari rifacimenti (o facimenti) in due anni.
"Tra seno, labbra, palpebre e tutto il resto ho speso almeno diecimila euro. Per non parlare del dentista. Poi magari uno mi tira una mattonata in faccia e tutti 'sti soldi li ho spesi per niente."
Una maniera letterale di perdere la faccia.
Il rifiuto dell'identità psicosessuale toccata loro in sorte si compiva in una migrazione verso l'altro sesso mai terminata, mai soddisfatta pienamente. La ferita narcisistica profonda si cercava di risarcirla in superficie, epidermicamente, in senso letterale. Non ci si piace fuori perchè non ci si piace dentro. Ovviamente non si parla di volti e corpi rovinati da traumi e malattie. Si parla dei processi fisiologici legati all'invecchiamento. Qualcuno ha detto che a cinquanta anni ciascuno ha la faccia che si merita: c'è chi pensa di poter bluffare.
Come psicologo mi preoccupo. In questo caso più per noi che per Lui. Quando D'Alema disse che temeva di vedere Berlusconi con lo scolapasta in testa, forse non fu troppo tecnico, ma individuò il rischio di scompenso dei grandi narcisisti che arrivano a dire: "vincerò anche la Coppa dei Campioni, perchè io vinco sempre. Sono condannato a vincere."
L'ultima frase è molto più rivelatrice di quanto il Cavaliere vorrebbe.
In un ipotetico paniere costruito per rilevare l'indice patologico di una società, metterei senz'altro anche la chirurgia estetica non riparativa, con l'alcolismo, la microcriminalità, la violenza da stadio, l'ossessione per il fitness da palestra e l'incremento dei reati finanziari, possibilmente depenalizzati. Un discorso a parte meriterebbe l'aumento continuo della spesa per gli psicofarmaci, prescritti più a lungo, a pazienti sempre più giovani e per sempre più sindromi: ventisette milioni di confezioni di antidepressivi venduti in un anno: quante scatole per nucleo familiare?
In senso figurato "perdere la faccia", dice lo Zingarelli, significa "disonorarsi ".
E' subire un'offesa grave che lascia un'io ferito, un'identità incrinata, che farà reagire con la rabbia e con la depressione profonda. Questo è il dramma del malinteso senso dell'onore: il delitto d'onore ne era un barbaro esempio.
Qua si parla invece di conservare la propria dignità.
Oggi non si dice quasi mai: "voglio difendere il mio onore", ma piuttosto "lei ha sciupato la mia immagine." Apparenza, appunto.
Nello splendido Dizionario dei sinonimi della lingua italiana (VI edizione, pag. 737) Niccolo Tommaseo scrive "onore riguarda le cose essenziali; decoro le estrinseche. Conviene talvolta trascurare nelle cose meno importanti, il decoro; non mai l'onore. Molti scambiano il decoro con l'onore, e per conservare quello diventano infami.
- C'è chi per l'onore sprezza la gloria e gli onori; v'è chi per questi e per quella calpesta l'onore..."
Naturalmente qua, come dice Tommaseo si parla delle cose essenziali, cioè vicine alla nostra essenza, non di codici barbarici che vendicano in nome di un falso senso dell'onore solo un affronto che "fa perdere la faccia".
Onore e dignità sono parole dure a morire; dopo tutto: non è un caso che il colossal del momento, L'ultimo samurai, racconti la storia di un ufficiale, Tom Cruise, che sente di averlo perso facendo una strage di indiani e fa di tutto per recuperarlo, aderendo al bushido, il codice di onore, e quindi di condotta di vita, dei samurai. Quando Mishima fece il suo tragico seppuku televisivo, il suo gesto disse più cose sulla crisi esistenziale del Giappone che sulla sua personale psicopatologia. E la reazione del paese fu profonda.
Sono almeno tre i film attualmente in circolazione che trattano il tema dell'onore (tra cui uno di Kitano). L'America di Bush si interroga sulle sue stragi, gli indiani di ieri sono gli iracheni di oggi.
Il samurai invece può combattere solo combattimenti degni, ne va del suo onore.
Questo è connesso al senso della propria dignità: Enrico De Nicola se torna a casa in autobus, quando non è più Presidente della Repubblica. Non vuole approfittare dell'auto di Stato, che ritiene non gli spetti più. Un conflitto di interessi, per lui.
Il lifting consigliato dalla moglie o presentato come un sacrificio che l'uomo pubblico fa per i suoi elettori è piuttosto inquietante: ve lo immaginate il tanto citato De Gasperi che si stira le rughe del collo? O De Gaulle che si rifà un bel nasino alla francese. D'altronde l'ex presidente della camera Irene Pivetti, al tempo maestrina vagamente sado, si trasforma senza complessi nella conduttrice di un programma televisivo, Bisturi, in cui si vedono operazioni in diretta: naturalmente per migliorare la propria immagine. Anche lei nel paniere della patologia sociale.
Presidente, su una cosa siamo d'accordo: lei in fondo non si piace, e non piace neppure a noi. Ma ci vuole altro che un lifting.


Le Radici

15-04-2014

Il simbolo

Ci imbattiamo a volte in cose, le più disparate, che andando al di là del loro significato palese, ci colpiscono con immediatezza nel profondo, quasi come un cinico spietato che ci fa soffrire sapendo dov'è la nostra ferita aperta, o come un saggio maestro che con poche parole ci svela conoscenze nuove. Queste cose possono essere immagini, parole, suoni, persone, paesaggi ma in generale potrebbe essere qualunque cosa con cui entriamo in relazione. A volte colpiscono solo noi, altre un gruppo più allargato di persone, a volte interi popoli, ma quello che possiamo sicuramente dire è che queste cose, che chiameremo simboli, hanno una capacità molto particolare.
Per comprendere meglio dobbiamo chiederci cosa è un dato, cosa un'informazione e cosa un significato. Un dato è una rappresentazione qualitativa o quantitativa della realtà: la temperatura ambiente, l'altezza del Monte Bianco, il PIL dell'Italia, il colore della nostra auto, il livello di servizio delle Poste sono solo alcuni esempi di dato. Un'informazione è un dato che ci è utile per prendere una certa decisione, quindi possiamo dire che un'informazione aumenta la nostra capacità di rapportarci all'ambiente: la crescita annua del PIL italiano può essere solo un dato, ma l'aumento percentuale di posti di lavoro può essere per noi un'informazione importante se siamo interessati a trovarne uno o a cambiare quello attuale. Infine, se dico “in Italia vengono uccisi ogni anno 300 bambini”, questo può essere un dato o un'informazione, ma sicuramente la frase contiene qualcosa che tocca la nostra coscienza. Probabilmente questo dato non ci è di utilità, ma ha avuto la capacità di smuovere una parte profonda di noi, magari di farci provare un sentimento che possiamo portare dentro ancora a lungo, pur avendo dimenticato il dato. Ecco un esempio di significato: mentre il dato e l'informazione toccano la parte mentale ed emotiva, il significato va ancora più a fondo, verso i sentimenti, i nostri valori, le nostre qualità. Mentre il dato per essere tale non presuppone niente in noi, l'informazione presuppone un interesse e il significato presuppone una profonda risonanza; è chiaro allora che dentro di noi esistono delle strutture, consce o inconsce, che potremmo chiamare nuclei di significato, costituite dai nostri valori, dalle nostre sofferenze, bisogni, gioie, paure, desideri ed ancora da tutto ciò che agisce nel profondo, costituendo il motore del nostro vissuto psichico. Queste strutture, essendo preesistenti all'esperienza attuale, costituiscono già un legame con le nostre radici ed hanno la proprietà peculiare di possedere un'energia psichica, cioè la capacità di rendere dinamiche le nostre parti, di metterle in relazione.
Quando entriamo in contatto con qualcosa che racchiude in se un certo significato, se abbiamo un nucleo che gli corrisponde, allora questo nucleo si attiverà, suscitando in noi gli stati d'animo che gli corrispondono: questo qualcosa lo chiamiamo simbolo (etim. Dal greco sýn e bállo cioè metto assieme).
Ma come avviene tutto ciò? Se guardiamo come era utilizzata la parola nel passato, scopriamo che essa indicava un contrassegno (tessera hospitalitatis) che veniva spezzato in due parti, le quali, conservate da due famiglie, servivano ai membri delle stesse per comprovare la reciproca amicizia ed ospitalità. Qualcosa di simile si ritrova nel significato degli anelli nuziali, per mostrarci come qualcosa che una volta era unito (l'oro) viene diviso e distribuito a due parti (gli anelli degli sposi), proprio per ricordarne l'unità primordiale. Il simbolo rappresenta dunque l'unione che soggiace all'apparente divisione tra il soggetto ed i suoi significati, fino a diventare il mezzo tramite il quale questa unione si rappresenta a livello cosciente. Questo processo di connessione dell'oggetto simbolico al nucleo di significato può avvenire in varie maniere, come ad esempio l'uso dell'oggetto in certe situazioni, la sua adorazione o la sua collocazione tra le immagini archetipiche, il suo coinvolgimento in momenti di vita intensi; in ogni caso bisogna ricordare come questo processo rimanga in gran parte misterioso, almeno per certi simboli.
Essendo legato ai significati personali, il simbolo è qualcosa di personale, connesso alla propria cultura ed esperienza, ma per l'esistenza di una sfera psichica collettiva in cui vivono miti ed archetipi, alcuni oggetti divengono simboli per intere società, popoli o per l'intera umanità (basti ricordare a tal proposito la croce, il caduceo, il fuoco o alcuni animali come ad esempio il leone).
L'azione psicoenergetica del simbolo deriva proprio da questa capacità di connessione tra i nostri significati profondi e la coscienza, perché divenire coscienti significa conoscere e così compiere il primo passo di quel processo dinamico che in psicosintesi prosegue con il possiedi e si conclude con il trasforma.

Le radici

In quest'epoca di flessibilità e rapidità è difficile parlare di radici, soprattutto riuscendo a coglierne il lato positivo, il carattere trasformativo, infatti si ha spesso l'impressione di qualcosa che ci ancora, ci radica, costituendo quasi un peso per l’evoluzione. Questo sentimento è principalmente dovuto ai valori e ai modelli di crescita che l'epoca odierna ci propone, oltre che a una certa superficialità della società dell'apparire. Le radici infatti sono per loro natura nascoste, non si mostrano palesemente e per tale motivo spesso le dimentichiamo, commettendo così l'errore di perdere di vista proprio ciò che ci sorregge e ci permette di assimilare nutrimento.
Per iniziare riportiamo alcune citazioni, provenienti da vari campi della conoscenza umana, che ci evocano il senso delle radici:
Dalla Bibbia:
“ Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra.” (Efesini 6:2-6.3)
“ Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola.” (Efesini 5:31)
Dal teatro:
VOCE DIETRO LA SCENA
Ahimè, di cosa vive l’uomo?
MACHEATH
Solo assaltando gli uomini,
torturando, depredando, sbranando.
Nel mondo l’uomo è vivo solo a un patto:
se può scordar che a guisa d’uomo è fatto.
CORO
Signori, fate a meno d’imposture:
l’uomo vive d’infamie e di brutture!
(Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi)

Dalla prosa:
“Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.” (Jean Giono, L'uomo che piantava alberi)
Dalla poesia:
... Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.

(Giuseppe Ungaretti - Congedo, Il porto sepolto)

Dalla spiritualità:
“ Il dramma dell'uomo
è di essere troppo
e non abbastanza.
L'uomo
è in una gabbia.”

(Maurice Zundel - L'uomo, il grande malinteso,)

Dalla psicologia:
“ Vi è nella psiche umana una tendenza fondamentale all'unione, alla sintesi, che è espressione di un principio universale”
Roberto Assagioli

Ho voluto fare questa premessa perché, lavorando sul tema delle radici, mi sono accorto come queste non siano un vero e proprio simbolo, ma piuttosto un meta-simbolo, tramite il quale possiamo accedere ai simboli che rappresentano qualità di base. Questi simboli sono numerosi e diversi quanto lo sono le esperienza umane, di cui si può avere una seppur vaga idea pensando ai vari ambiti dell'attività umana.
Ma quali sono queste qualità di base delle radici? Pensando al mondo vegetale, vediamo che le radici hanno la funzione di apportare nutrimento e di dare stabilità alla pianta, allora potremmo dire che:
1. le radici rappresentano prima di tutto le nostre aperture verso il mondo esterno ed interno, attraverso le quali lasciamo entrare nella vita della nostra psiche vari elementi che, entrando a far parte di un processo dinamico, ne costituiscono il nutrimento. Bisogna qui ricordare che la distinzione non è solo tra mondo interno ed esterno, ma anche tra i livelli dei due mondi. La proprietà delle radici è in questo caso anche quella di riuscire ad affondare tanto nel nostro terreno psichico mettendo in comunicazione conscio ed inconscio, quanto in un terreno psichico più ampio, che possiamo chiamare collettivo.
2. "Le radici dell'uomo sono i suoi piedi", ammoniva Goethe. L’uomo infatti appoggia i suoi piedi per terra, e questo aspetto è essenziale affinché egli possa sopravvivere, come è essenziale che la pianta abbia radici profonde. Questo aspetto è legato strettamente alla costituzione dell’uomo, di cui la sua posizione eretta è un simbolo: l’uomo infatti appoggia i piedi per terra, ma assume una posizione eretta, come se possedesse uno slancio verso il cielo, una tensione a trascendere la sua origine puramente terrena (di questo aspetto parleremo più diffusamente in seguito). In tal senso le radici lo collegano al suo nutrimento principale che è humus, ma gli consentono pure una proiezione divina. Per capire meglio la funzione delle radici e quindi come utilizzare i simboli ad esse riconducibili, possiamo seguire un parallelo tra fisica e psicologia, utilizzando la nota formula di Einstein E = mc2: l'energia è il prodotto della massa per la velocità della luce, quindi senza questi due elementi non vi è energia. La nostra vita psichica è dinamica, poiché esistono energie psicodinamiche che ne mettono in movimento e in rapporto i vari elementi; se consideriamo la luce come il fuoco, della cui simbologia abbiamo già parlato in questa serie di conferenze, possiamo dire che la massa sono proprio i nostri elementi psichici, i quali sono forniti dalle nostre radici. Ecco che la presenza di fuoco e radici consente la nascita di una dinamica psichica, i cui effetti possono essere interpretati in chiave di energie psichiche.
Le precedenti considerazioni ci dicono che le radici rappresentano tutt'altro che la staticità, e questo è confermato anche dal ragionamento che possiamo fare pensando a un albero: se l'estensione delle radici deve essere rapportata ai rami e alla chioma, altrimenti l'albero cadrebbe, allora lo sviluppo dell'albero implica pure uno sviluppo delle radici. Per analogia possiamo dire che le nostre radici aumentano man mano che procediamo sul percorso evolutivo, poiché diveniamo sempre maggiormente consapevoli della loro esistenza, ed è così che esse possono svolgere la loro funzione

 

 

 

 

 

 

 

Le radici fisiche dell'uomo

Le teorie sulla cosmogonia sono varie, ma riconducibili essenzialmente a due visioni: una deistica e l'altra fisico-materialistica, che sono proprie, anche se con varie intersezioni, rispettivamente della religione e della scienza, ed hanno portato, per quanto riguarda la comparsa dell'uomo, alle ipotesi creazionistica ed evoluzionistica. Queste due visioni non si escludono in realtà a vicenda, neanche se tentiamo di analizzare gli aspetti più propriamente cosmologici dal punto di vista della presenza o assenza di un progetto, soggiacente allo sviluppo del cosmo nelle sue varie manifestazioni. L'ipotesi di Monod sull'azione del caso e della necessità non esclude la possibilità di un progetto, poiché ciò che osserviamo in realtà è un mondo con leggi precise, in cui la causa efficiente può agire anche tramite ciò che interpretiamo come caso: basti pensare in tal senso agli sviluppi della teoria del caos e dei sistemi complessi.
In questo lavoro adotteremo sia una visione scientifica che trascendente in senso lato, e cioè interpreteremo in chiave di significato anche fatti scientifici.
Tutta la materia che troviamo nell'universo, e di cui anche l'uomo è costituito, è fatta dalle stesse particelle elementari e proviene dalla combustione dell'idrogeno nelle stelle formatesi a seguito del big-bang: da questo processo si sono dunque formati tutti gli elementi chimici naturali. Dalla interazione di questi elementi, con l'apporto di energie esterne come la temperatura e le scariche elettriche, si sono formati i vari composti chimici e tutte quelle formazioni che oggi osserviamo in natura, come le rocce o l'acqua.
Poi una parte di materia, organizzatasi in maniera complessa, ha iniziato ad interagire con l'ambiente, divenendo parte attiva nel processo evolutivo. Queste forme di vita primordiali hanno lentamente modificato l'ambiente e quindi si sono evolute in forme sempre più complesse, fino alla comparsa degli esseri viventi superiori e dell'uomo.
Il processo che ha portato all'uomo è stato molto lungo e complesso, e si è svolto in condizioni particolarmente critiche, tanto che sarebbero bastati cambiamenti minimi in alcune variabili ambientali per non consentirne la comparsa. Questa constatazione riconosce una congruenza nei fatti che hanno portato alla vita e all'uomo, come afferma il principio antropico nella sua forma debole. Esiste però anche un principio antropico in forma forte, che afferma come le condizioni generali abbiano concorso alla formazione non solo della vita, ma di esseri che possano averne coscienza.
Possiamo dire, come afferma Teilhard De Chardin ne Il fenomeno umano, che siamo fatti della stessa stoffa dell'universo e quindi una delle nostre radici ci riporta alla materia, alla terra o, come è scritto nella Bibbia, alla polvere: allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente (Genesi 2:7 ).
Di questa remota origine, l'uomo conserva presenza nel DNA e nella struttura fisica, sulla quale si innestano poi ulteriori elementi, come possiamo vedere dalla figura seguente. Nel suo percorso evolutivo l'uomo ha creato strutture adatte a proteggere quel nucleo fisico iniziale, di cui percepiva l'estrema vulnerabilità e sono nate così la famiglia e la società. Questi tre elementi sono ancor oggi presenti ed essenziali nello sviluppo dell'uomo.
Se adesso osserviamo più specificatamente questo sviluppo, vediamo che esistono due momenti consecutivi: il primo consiste in una fase per così dire programmata, nel senso che non ne scegliamo gli elementi condizionanti, mentre il secondo rappresenta uno fase progettata, che ci vede autori in prima persona.

Le radici dello sviluppo programmato sono il DNA, che decide come sarà il nostro fisico, poi la famiglia, che fornirà le radici del nostro sviluppo emotivo, ed infine la società, che contribuirà in larga parte allo sviluppo psichico. E' chiaro che queste tre radici intersecano i loro effetti, ma la cosa essenziale da osservare è, appunto, che non li scegliamo, almeno per quanto ci è dato sapere dal nostro livello di coscienza ordinaria.
Il risultato di questa parte dello sviluppo è l'emergere di una identità personale, cioè della nostra peculiare sensazione di essere qualcosa di unico, che spesso identifichiamo con le nostre caratteristiche fisiche e con quello che, molto genericamente, definiamo carattere. Poiché questa identità è il risultato di un processo esogeno, possiamo che, in larga misura, non la scegliamo e che quindi difficilmente essa sarà la nostra vera identità.
Quando iniziamo a parlare di vero e di falso, significa che presupponiamo l'esistenza di qualcosa che rappresenta questo vero e che, almeno inizialmente, esso è al di fuori della nostra consapevolezza. In psicosintesi una tale affermazione non deve essere presa con atteggiamento fideistico, ma con quello del ricercatore, che procede per ipotesi, esperimenti e verifiche.
Roberto Assagioli ci parla di animo molteplice, per indicarci la realtà di questa identità, che è multipla, spezzettata e che quindi non può essere una vera identità; ricordiamo l'etimologia: dal latino identitas, a sua volta dall'avverbio identidem da idem et idem, cioè lo stesso e lo stesso. Vediamo che la parola evoca due livelli, dai quali si percepisce la stessa cosa, o ci percepiamo nello stesso modo, ed ancora riconosciamo che con l'identità non si stabilisce una relazione oggettuale ma di stato: essere identità significa allora percepirci come la solita cosa, sia che ci guardiamo nei vari momenti della nostra vita, che ai vari livelli della nostra personalità. E' esperienza di tutti i giorni viverci come frantumati, essere in un modo con il nostro capo al lavoro e poi diversi magari con i figli ed ancora vederci in un certo modo in una situazione e completamente l'opposto in un'altra. L'aspetto ancor più importante è che non riusciamo a scegliere come essere nelle varie situazioni, ma piuttosto attiviamo comportamenti e reazioni automatiche o che dominiamo solo in minima parte, ricavandone spesso frustrazione e dolore. Dunque molto spesso la nostra identità è in realtà identificazione in parti periferiche della nostra personalità, che possono essere, per utilizzare il linguaggio psicosintetico, subpersonalità e false immagini di se.
Di fronte a questa situazione, di cui spesso prendiamo coscienza a seguito della sofferenza che ci provoca, la prassi psicosintetica prevede un lavoro di integrazione della personalità, la cui peculiarità è quella di riconoscere i vari elementi, acquisire la capacità di gestirli per equilibrarli ed utilizzarli in maniera costruttiva; questo processo ha un duplice risultato: da una parte ci consentirà di rispondere in maniera migliore all'ambiente, passando dalla reazione all'azione, e dall'altro ci porterà a sperimentare l'esistenza in noi di un nucleo centrale, che la psicosintesi chiama io, la cui duplice caratteristiche è quella di essere e di volere. A questo punto possiamo iniziare a parlare di identità e soprattutto a farne esperienza.

Il lavoro appena descritto è una chiave di volta nello sviluppo dell'uomo, poiché egli inizia a passare dalla fase programmata a quella progettata. Se ci pensiamo bene questa è la differenza fondamentale che esiste tra uomo ed animale, infatti quest'ultimo si comporterà per tutta la vita in base a radici che non ha scelto, mentre all'uomo è concessa la possibilità di scegliere e di autodeterminarsi: è questa la più grande conseguenza dell'autocoscienza

Le radici spirituali dell'uomo

Ritornando all'origine del cosmo e della vita, per Teilhard De Chardin vi sono, nella curva di complessificazione della materia, due punti di discontinuità: quello di vitalizzazione, con il passaggio dalla non vita alla vita, e quello di ominazione, cioè la comparsa dell'uomo. Per Dobzhansky, in maniera simile, esistono due momenti in cui l'evoluzione ha trasceso se stessa: nell'origine della vita e nell'origine dell'uomo.
Con l'inizio della vita abbiamo una biforcazione che porta una parte della materia a seguire una evoluzione diversa dal resto dell'universo, caratterizzata da un rapporto intelligente con l'universo stesso tramite i sensi fisici. Parliamo in questo caso di intelligenza pratica, di cui sia l'uomo che gli animali sono dotati in maniera qualitativamente simile, anche se in diversa misura. Con l'uomo osserviamo una seconda biforcazione, poiché dalla sua comparsa, l'evoluzione non è più guidata solo da leggi fisico-biologiche, ma anche da aspetti legati ad una dimensione più sottile, a cui appartengono il linguaggio simbolico ed un mondo psichico dotato di quella che possiamo definire intelligenza astratta.
Citando Fogazzaro possiamo dire che “Non siamo discesi dai bruti, ma ascendiamo da essi” (L'origine dell'uomo ed il sentimento religioso), poiché alcune delle nostre caratteristiche sono qualitativamente diverse da quelle del mondo animale.
E' in seguito a queste caratteristiche peculiari che nell'uomo si sviluppano, fin da tempi remoti, bisogni che vanno oltre quello di sopravvivenza e di branco, e lo portano a intraprendere attività quali lo studio, l'arte, il culto dei morti e degli antenati, oltre che la ricerca di un contatto con qualcosa che trascende l'uomo stesso. E' in particolar modo quest'ultima caratteristica che mi preme evidenziare, poiché con essa l'uomo scopre un senso delle cose che va oltre l'apparenza e oltre la sua stessa coscienza, ampliandola.
Quello che nasce nell'uomo potremmo dunque definirlo un bisogno di trascendenza, che si esprime nelle maniere più diverse, che vanno dall'arte, alla filosofia, alla scienza, alla meditazione ed alla religione. E' un mondo nuovo in cui si ritrovano qualità come la bellezza, l'amore, l'intuizione, la fede, la conoscenza ed il cui contenuto è denso di significati e capace di creare valori. E' anche un mondo che si esprime in maniera marcatamente simbolica ed i cui contenuti sono dirompenti, nel senso che sono capaci di sovvertire quell'ordine delle cose che la nostra coscienza ordinaria struttura in base al senso comune ed al rapporto con la realtà tramite i sensi fisici.
Bisogna qui chiarire che non si tratta solo di ciò che viene definito psichismo riflesso, cioè la capacità umana di essere pensanti e coscienti di pensare, e dei suoi prodotti, ma di qualcosa che va oltre, come afferma Roberto Assagioli nel libro “Lo sviluppo transpersonale”: “Il fatto fondamentale di cui ci occupiamo è la coscienza e l'esperienza spirituale e può essere così espresso: fin dai tempi più lontani vi sono stati esseri umani che hanno affermato di aver sperimentato stati di coscienza che differivano grandemente – nella qualità, nell'intensità e nell'effetto - da quelli che normalmente gettano le proprie luci o le proprie ombre sullo schermo dell'umana consapevolezza”.
Il modello psicosintetico della personalità vede la sfera cosciente dell'uomo avvolta in un inconscio inferiore, un inconscio collettivo ed un inconscio superiore o supercosciente, il quale contiene il nostro io profondo o , ed i cui contenuti possono arrivare alla nostra coscienza ordinaria, provocando quegli stati che abbiamo definito esperienza spirituale, ma che non appartengono solo alla sfera della religione. Anzi, potrebbe essere fuorviante assimilare l'esperienza del supercosciente a quella religiosa, in quanto, come afferma Maslow nel suo libro “Verso una psicologia dell'essere”, la caratteristica fondamentale di contatto con il supercosciente è di “dare un senso di 'pienezza di essere', di intensità di esistere e di vivere”, che appartiene ad una varietà di esperienze. Nel contatto con i contenuti supercoscienti si riscontra un improvviso ampliamento della coscienza, che consiste nel percepire una visione unitaria di una certa realtà e nel riconoscere collegamenti e corrispondenze precedentemente sconosciuti. La modalità con cui questo avviene è assimilabile al lampo con cui un intuizione getta luce su aspetti che l'intelligenza concreta non ha saputo elaborare: è probabile dunque che alla base di molte rivoluzionarie scoperte del pensiero umano vi sia proprio un contatto con il supercosciente.
Voglio far notare che di fronte a questo argomento non è affatto utile adottare un atteggiamento fideistico ma, come è solito nella prassi psicosintetica, risulta adeguato un atteggiamento sperimentale, poiché il Sé ed il supercosciente sono prima di tutto realtà psichiche di cui si può fare esperienza; d'altra parte abbiamo visto come il cammino umano sia caratterizzato anche dalla presenza di esperienze spirituali, che in psicosintesi vengono anche chiamate transpersonali, proprio per indicare che lo stato di coscienza a loro associato va oltre quello ordinario e personale.
Il Sé e il suo riflesso a livello cosciente che è l'io, divengono allora il motore di quello sviluppo progettato che consente all'uomo di perseguire una realizzazione più vera e profonda, proprio perché più vicina e rispettosa della sua natura integrale, che vede nella dimensione transpersonale l'altra radice dell'uomo. I termini superconscio, sé e transpersonale hanno un significato preciso in psicosintesi, che non è possibile approfondire rimanendo entro i limiti di questo lavoro, e non andrebbero confusi. In ogni caso, quale che sia la nostra conoscenza dei termini, possiamo sicuramente affermare che oggi l'apertura dell'uomo verso queste radici è molto limitata se non, in alcuni casi, negata per una sorta di rifiuto, proveniente dalla nostra cultura materialistica, di considerare come “vere” (su questo termine potremmo incentrare una lunga discussione) solo quelle esperienze che si basano su fatti tangibili e ripetibili, che collochiamo sempre fuori dal nostro vissuto interiore, in una sorta di realtà obiettiva esterna.
Dunque per l'uomo moderno una visione spirituale autentica risulta una conquista, alla quale possiamo dedicarci proprio lavorando con i simboli che fanno da ponte con queste radici superiori. Roberto Assagioli propone un insieme di quindici simboli utili a questo scopo, di cui ne riportiamo qui solo quattro a titolo esemplificativo:
1) Introversione: l'uomo moderno è troppo estrovertito, non ha più contatto con il proprio mondo interiore; letteralmente è “fuori di se” o, come direbbero i francesi désaxé. Lavorare con questo simbolo significa recuperare lo spazio interiore dell'uomo e sperimentare che l'azione esterna è il risultato di moventi (attività psicologiche) interne.
2) Evoluzione, sviluppo: il fine ultimo dello sviluppo è il passaggio dal potenziale all'attuale, che si ottiene solo togliendosi qui “viluppi” che nascondono la nostra volontà. Due importanti simboli dell'evoluzione e dello sviluppo sono rappresentati dal seme e dal fiore, come quello del loto loto (India) o della rosa (Europa, Persia).
3) Liberazione: la liberazione si riallaccia al simbolo precedente ed è caratterizzato, nell'uomo, dalla contemporanea presenza di un anelito e di una paura della libertà. Per intraprendere il cammino spirituale è necessario liberarsi da molte paure e false sicurezze, ricordandosi che la libertà è una conquista che richiede continua vigilanza, non basta lberarsi. La liberazione è la base dell'educazione, nel senso di e-ducee, cioè tirare fuori, l'impedimento più grande alla sua realizzazione è quello che Roberto Assagioli chiama "torcicollo psicologico", cioè la tendenza dell'uomo a guardare al passato con sentimenti di nostalgia e rimpianto.
15) Resurrezione: il simbolo della resurrezione è un archetipo molto potente ed antico, centrale nella visione cristiana e richiamato anche nella parabola del ritorno del figliol prodigo. La resurrezione come simbolo è legata ad una dottrina emanentistica dell'anima che prevede una discesa, una immersione nella materia ed un ritorno.

Lavorare con le radici

La nostra natura di esseri umani ha dunque radici terrene, che svolgono un programma di sviluppo che non scegliamo se non in minima parte, e radici spirituali che rappresentano invece quel percorso di sviluppo che possiamo deliberatamente progettare, dopo che abbiamo operato un'integrazione della personalità ed iniziato a contattare le istanze del Sé. Possiamo allora così completare il diagramma dello sviluppo visto in precedenza:

Da quanto abbiamo detto appare allora chiaro qual'è il lavoro che possiamo fare con le radici e perché l'uomo possiede questa duplice eredità, che possiamo definire opposta. In psicosintesi vi è un lavoro molto importante definito equilibramento e sintesi degli opposti, in cui si riconosce che il motore di qualunque trasformazione ed evoluzione nasce dall'interazione tra opposti e dalla ricerca di un punto di sintesi tra i due poli, che non è un compromesso, bensì qualcosa che si trova al di sopra della dilaniante tensione tra le parti e che però le raggruppa insieme, le sintetizza. Questo punto di sintesi rappresenta il punto di quiete a cui aneliamo quando siamo immersi nella tensione, ma dal quale scorgiamo ancora nuovi opposti e quindi la necessità di nuove sintesi: è così che si realizza il continuo cambiamento evolutivo senza il quale non esiterebbe la vita. Un esempio di sintesi degli opposti è schematizzata nella figura riportata sotto.

Allora lavorare con le radici terrene e spirituali significa impegnarsi nella ricerca di sintesi tra le istanze spesso opposte che provengono dalle due parti. L'uomo è assimilabile, riprendendo una idea platonica, ad un albero che ha sì radici nel terreno, ma anche radici celesti, rappresentate dai rami e dalle foglie.
Con le radici possiamo fare un lavoro notevole, consistente sia nel loro recupero e nel loro uso come simboli dinamici, sia nell'armonizzare e sintetizzare la loro duplice natura. Nei due paragrafi seguenti riportiamo due esempi di lavoro di quest'ultimo tipo, uno proveniente dal mondo aziendale e l'altro da quello personale.

 

Mission e modello ideale

La mission di un'azienda riflette la “filosofia dell'impresa”, la sua predestinazione, il senso della sua esistenza, i valori ed i principi dell'attività, la sua peculiarità ed unicità. La definizione della mission è un'attività importante per l'azienda poiché definisce, a partire proprio dalle radici dell'azienda, quali sono le energie ed i valori che la muovono e che ne garantiscono la riuscita a breve e al ungo termine nel mercato, svolgendo quindi una funzione tecnica, ideologica, simbolica e di valutazione.
Già quasi un secolo fa Herrington Emerson parlava dell'importanza per l'impresa di avere “un ideale chiaramente definito” che rappresenti lo scopo, il motivo, il credo comune dell'azienda. Il servizio alla comunità rappresenta in questi primi enunciati della mission come è il filo conduttore della filosofia aziendale. Nel dopoguerra però si assiste ad un continuo spostamento dello scopo dell'azienda verso la massimizzazione del profitto. Il culmine di questa metamorfosi si ha negli anni '70 ed è rappresentato dal pensiero di Milton Friedman, secondo il quale l'ideologia classica dell'impresa e la sua unica responsabilità è la massimizzazione del profitto. Più tardi Drucker estenderà questo concetto asserendo che lo scopo dell'impresa si trova al di fuori dell'impresa stessa ed è quello di creare un cliente.
Vediamo come per sua natura la definizione della mission debba tenere in considerazione sia elementi di sopravvivenza dell'azienda, che riguardano il fatturato (radici terrene), ma sempre di più anche la funzione sociale, consistente nel perseguire il bene comune e nel farsi portatrice di valori etici (radici spirituali). Collins afferma che per fare il passo da un'impresa eccezionale ad una eccezionale e durevole, occorre scoprire i suoi valori fondamentali e il suo scopo finale, al di là della massimizzazione del profitto. Per il momento l'importanza è incentrata sulla necessità per l'azienda di avere i “valori-nocciolo” (core values), ma il loro contenuto non ha al momento grossa importanza.
E' questa una sfida per gli anni futuri che riguarderà tutte le aziende, e che consisterà proprio nella sintesi tra la massimizzazione del profitto e la garanzia del bene comune.
Questo lavoro di definizione della mission può essere paragonato, a livello personale, al lavoro psicosintetico di definizione del modello ideale.

La stella

Questa lama dei tarocchi può essere utilizzato proprio come immagine simbolo che “... consiste nel 'vedere insieme', nel 'contemplare' l'essenza della crescita biologica (agente di crescita) e quella della crescita spirituale (speranza) al fine di trovare, o piuttosto ritrovare, la loro analogia, la loro intrinseca parentela e la loro identità fondamentale” (dal libro “Meditazioni sui tarocchi – un viaggio nell'ermetismo cristiano” ed. Estrella de Oriente).
La donna che vediamo nella carta, che racchiude il principio materno, possiede due anfore, una contenente il liquido delle radici terrene (la crescita biologica) ed uno delle radici spirituali. Queste due liquidi vengono però versati e si mischiano in un unico lago, che rappresenta l'uomo, in cui appunto le due radici si fondono. Allora il lavoro che questa carta ci invita a fare è proprio quello di operare in noi un riconoscimento della doppia natura dell'uomo ed un discernimento dell'azione esercitata dai due fluidi.

Bibliografia

[1] “L'avventura dell'uomo – Caso o progetto?”, Fiorenzo Facchini. Edizioni San Paolo.
[2] “Psicosintesi – Per l'armonia della vita”, Roberto Assagioli, Casa Editrice Astrolabio.
[3] “Lo sviluppo transpersonale”, Roberto Assagioli, Casa Editrice Astrolabio.
[4] “L'equilibramento e la sintesi degli opposti”, Roberto Assagioli, Edizioni Istituto di Psicosintesi – Firenze.
[5] “L'io e le sue maschere – il lavoro sulle subpersonalità in psicosintesi”, Daniele De Paolis, Edizioni Istituto di Psicosintesi.
[6] “Meditazioni sui tarocchi – Un viaggio nell'ermetismo cristiano”, autore sconosciuto, Casa Editrice Estrella de Oriente

Massimo Landi

 


Imperatori e Usurpatori

15-04-2014

Castiglione della Pescaia 2008
Congresso di Psicosintesi : I volti del potere

“I volti del potere” è un titolo assolutamente giusto, perché molti sono i volti. Non basta il Giano bifronte, forse occorre una di quelle divinità del pantheon indiano.

O forse Proteo, il multiforme.
Voglio elencare solo alcuni temi, alcune antinomie : sacro – profano ; oscuro- luminoso; legittimo- illegittimo ;autorevole- autoritario ; sano – patologico ; femminile- maschile... potremmo continuare a lungo.

Nella mia relazione per semplificare ho scelto la coppia Imperatori – usurpatori, a cui aggiungerò una terza : Facenti funzione.

Vi è chi possiede un carisma personale che si esprime poi in qualche manifestazione di potere, in diversi campi o relazioni. E’ un’incarnazione del principio del potere, che gli viene naturalmente riconosciuto, da amici e da nemici.

Vi è chi si ritrova a esercitare un potere senza carisma e magari senza motivazione: fa quello che c’è da fare, senza identificazione né grandi emozioni.

Vi è chi lo evita : esemplare il caso di un dirigente d’azienda a cui la proprietà aveva proposto una posizione di maggiore responsabilità, insomma una promozione:” sono costretto ? “, aveva chiesto agli sconcertati proprietari: inutile dire che non lo avevano costretto e avevano scelto qualcun altro.

Il povero Celestino V è l’esempio storico della riluttanza ad assumere il potere. Il problema è che questo può accadere anche per responsabilità fisiologiche, quali quelle della genitorialità, o dei ruoli educativi che ci troviamo ad esercitare.

In un esercizio di scrittura di un corso in cui utilizzavo le carte dei tarocchi, giunti all’Imperatore avevo chiesto di raccontare la propria relazione con il potere, attraverso storie di finzione o autobiografiche : ebbene, in tutte e tredici le storie gli scrittori si descrivevano come vittime del potere. Tredici vittime e nessun carnefice. Nessuno che si fosse identificato, almeno per esperimento, in chi il potere lo esercita, bene o male.

Vi è che si ripara dietro alla funzione : è il caso del potere per linea dinastica , in cui il vuoto, quando non l’ indegnità, si ripara dietro a una presunta legittimità dinastica . Mai come in questo caso l’abito non fa il monaco e il bluff verrà presto scoperto.
Questa è l’usurpazione morale. Gli ultimi Savoia ne sono un esempio.

Eppure questa voglia di Imperatore e Imperatrice , insomma, di principio del potere, arché, affonda le sue radici nell’ inconscio collettivo.

Vi è una storia esemplare , quella del figlio di Zog, l’ultimo re di Albania : quando dieci ani fa si sparse la voce che sarebbe venuto in visita a Tirana, da tutta l’Albania folle si misero in cammino. Nonostante i tanti anni di regime comunista e anche la breve durata del regno di Zog, la voglia di un principio ordinatore supremo era rimasta intatta nell’inconscio collettivo . Il fatto che si trattasse in realtà di un uomo d ‘affari che aveva vissuto tutta la vita in Sudafrica, ed era quindi meno albanese di tutti, non impediva il sogno. Del resto Simeone di Bulgaria è rientrato nella scena politica post comunista da presidente, come a ricucire un filo interrotto. Non a caso si parlava di monarchie per diritto divino , non a caso Elisabetta di Inghilterra, come il Papa, dice che dal suo mestiere non ci si dimette, e il figlio resta principino a sessanta anni.

Carisma è parola tutto sommato misteriosa . Nella Bibbia (dal greco charis, grazia, è inteso come dono : “ ciascuno metta al servizio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della grazia di Dio” ( I Pi. 4:10). In senso psicologico diventa una forte capacità di influenzare gli altri.

A volte la funzione lo crea : il sosia dell’imperatore, un lestofante, acquista dignità e spessore quando, sostituendolo in battaglia, vede il sacrificio dei soldati per proteggere la sua vita ( Kagemusha, l’ombra del guerriero, di A. Kurosawa).

Ma individuare questo dono negli altri è forse più facile che definirlo. E allora vi propongo un gioco-test: tra le coppie di personaggi che vi mostrerò scegliete, senza pensarci troppo, chi è più imperatore. Non si tratta di dire chi ci piace di più, chi ha utilizzato meglio il suo potere, chi è più vicino ai nostri valori.
Il gioco è un pretesto utile per chiederci quali sono i criteri che determinano le nostre scelte. Se di scelte si può parlare , perché scegliere significa arrivare a un atto di volontà dopo un’elaborazione razionale. Mentre nel potere carismatico ciò che ci attrae può cozzare con la razionalità , e parla il linguaggio dell’inconscio, che è sempre potente. Sappiamo bene che vi sono livelli diversi nell’inconscio collettivo, così come in quello individuale. E che i livelli si mescolano e interagiscono.

Chi è l’imperatore?

Esempi:
hitler / roosevelt

michael jackson / elvis presley
marlene dietrich / greta garbo
fausto coppi / gino bartali
jung / freud
berlinguer/ veltroni
robert de niro / dustin hoffman
alessandro del piero / francesco totti
rita levi montalcini / carlo rubbia
gandhi / martin luther king
irene pivetti / nilde jotti
mina / madonna
modigliani / picasso
cavour / garibaldi
dalai lama / wen jiabao
teresa di calcutta / san Francesco
manzoni / tolstoj
mozart / beethoven

La domanda che ci dovremo fare è quali criteri abbiamo per distinguere:

  1. il potere di un personalità egoista ma bene integrata, organizzata attorno a subpersonalità dominanti ?
  2. il potere – funzione dell’io disidentificato che utilizza le proprie risorse con la giusta miscela di forza, saggezza e bontà?
  3. il potere del Sé che riflette la Volontà transpersonale e universale .

Sarà interessante vedere se quantitativamente c’è un ragionevole accordo nella percezione del potere carismatico e comunque diventare consapevoli dei nostri processi mentali. A me sembra chiaro che chi porta in sé il dono pesante del potere parla agli altri sul livello mitico, e difatti è legato molto al fato, spesso tragico. Vi è inoltre una nota di profonda solitudine. Chi serve non si aspetti solidarietà e grazie.

Andrea Bocconi


Lettera aperta: Progetto Alice e terremoto

15-04-2014

Valentino Giacomin,  che ha fondato e dirige delle scuole in India ove si sperimenta il progetto Alice, ha mandato questa lettera aperta che contiene riflessioni che sembreranno provocatorie e per me sono puro buon senso. La lettera è indirizzata ad Agata, una monaca buddista che collabora con la scuola di Sarnath

Cara Agata,
mi fa piacere che Geshe-la organizzi una raccolta di fondi per i terremotati, ma permettimi di esprimere un giudizio senza censure: il peggior terremoto e' quello che colpisce la mente della gente. Quindi, noi del Progetto Alice avremmo dovuto essere sostenuti ... secoli fa, perche' stiamo aiutando non solo i terremotati psichici ma anche cercando di prevenire eventuali danni del sisma della mente causati da una educazione inappropriata. Abbiamo cercato di proporre un metodo educativo... antisismico, antistress, anti-neurotic mind, ma pochi l'hanno capito. Mi sento come quel povero tecnico dell’Aquila che da settimane andava urlando ai politici e responsabili del Governo locale e centrale che, secondo i suoi calcoli, un terremoto devastante stava per colpire la zona, ma nessuno lo prese sul serio, anzi lo denunciarono "per procurato allarme".

Una considerazione: che senso ha ricostruire le citta' secondo i vecchi parametri che erano caratterizzati dall'egoismo e da una visione della vita che si e’ rivelata fallimentare se non catastrofica? Che senso ha aiutare le persone a ricostruire le lore "villette" secondo un modello socio-culturale proprio del pensiero materialista ed egoista dell’era industriale e post-industriale, responsabile del “global warming” , della distruzione di Madre Terra e della scomparsa del Sacro?
Non so se mi capisci.
Il terremoto puo’ essere un'occasione di verifica dei modelli di vita, di costruzione, di aggregazione sociale, di villaggio, di una visione del mondo. Capirei sei soldi venissero donati per la costruzione di scuole diverse, magari con un gabinetto in meno, ma un'aula di meditazione in piu'.
Capisci?
Nel momento del lutto e del pianto, a che cosa sono servite le migliaia di ore passate dagli studenti a studiare matematica, storia, geografia, scienze e sciocchezze del genere?
L'unica consolazione, da quanto ho letto, e' venuta dalle tende costruite dai frati di San Francesco, che hanno portato il sorriso e la speranza della loro fede a quella gente che aveva perso tutto.
Ecco, dov'erano i professori e i maestri con tutto il loro sapere, la loro arroganza e saccenza, i loro voti?
Non servivano. Avevano ben poco da offrire senza i loro libri e le cattedre. La scuola che prepara per la vita? Che espressione patetica! Quanti hanno usato i logaritmi nel momento del dolore?
Servono valori diversi nei momenti di crisi: pace, serenita', solidarieta', gentilezza, altruismo, distacco, rinuncia... Tutte materie lontane anni luce dai nostri programmi ministeriali. E allora, mi domando, vale la pena ri-costruire scuole cosi' inutili che nel momento del bisogno non hanno nulla da offrire? Quello che voglio dire e' che la ricostruzione ha un senso se segue un modello diverso rispetto a quello seguito finora. Il nuovo paradigma educativo appunto. Ripeto: un gabinetto di meno, ma un'aula dui meditazione in piu'. E se si dovesse scegliere tra i due, sceglierei decisamente lo spazio di meditazione, perche’ i bisogni spirituali sono di gran lunga piu’ importanti di quelli… fisiologici. (In India nessuno ha problemi con i gabinetti.) Solo se la ricostruzione sara’ ispirata da un “punto di vista” piu’ elevato rispetto a quello scelto dai geometri e dagli ingegneri responsabili delle mappe delle vecchie costruzioni distrutte vale la pena “aiutare la ricostruzione”. Altrimenti, saremo corresponsabili di un ennesimo delitto contro Madre Terra e l’umanita’. Rifare, ripetere gli errori del passato e' stupidita’, colpevole complicita’ con le forze che remano contro l’evoluzione della Coscienza.
Il terremoto ha distrutto un modo di vita, un modello che si e' rivelato perdente. In tutto il mondo questo modello di sviluppo e di vita e' in crisi.
Lo ricostruiremo all'Aquila anche grazie alla raccolta fondi di Geshe - la?
Mi permetto di ssere cosi' radicale perche', come sai, anche noi siamo stati terremotati. La nostra sponsor ha tagliato il bonifico annuale a causa del terremoto della banche mondiali e delle borse. Ha perso quasi tutto, a quanto pare. Ma il nostro terremoto non fa notizia perche' non ha sollevato polvere e non ci sono rovine che si possono vedere. Le rovine sono sottili: i chakma rimandati a casa, il gruppo dei Mompa che non potra' piu' tornare... Non sono anche loro terremotati? Non meriterebbero anche loro una "raccolta fondi"? Scusa la franchezza, ma e' tempo di parlare chiaro. Non ce l'ho con nessuno in particolare, ovviamente. Tanto meno con Geshe-la, che adoro, ma vorrei che prevalesse la ragione anche nei momenti in cui le emozioni sono forti, perche' attivate dalla visione di bare, morti, distruzione. Se proprio vogliamo aiutare i terremotati dell'Aquila, aiutate ANCHE il Progetto Alice a sopravvivere, anzi aiutate i nostri studenti a venire in Italia e vivere con i ragazzi/zze sotto le tende per insegnare alle vittime del terremoto fisico il modo per neutralizzare quello emotivo, mentale, psicologico. Aiutateci a costruire una scuola di Alice nelle tende, tra gli sfollati. Perche’ no? Non chiediamo stipendi. Non chiediamo onorari. I nostri studenti conducono una vita semplice, cheap. Potrebbero aiutare i loro coetanei italiani a sopportare i disagi dell’impermanenza, magari scoprendone i vantaggi, rispetto all’artificiosita’ dello stile di vita precedente (ante-terremoto). La vita semplice nelle tende e’ un modello che puo’ anche essere preso come possibile “stile di vita”. Perche’ no? O la vita e’ impossibile senza i comfort delle nostre case con mille cose inutili (e costose)! Gli studenti di Alice possono testimoniare che e’ possibile vivere felici in modo diverso. Un modo sobrio, semplice, senza discoteca, senza telefonino, senza le scarpe firmate, senza … Senza il superfluo! La vita nelle tende insegna che il superfluo nella nostra vita e’ di gran lunga maggiore di quanto si immagini. Potremmo rinunciare a quel superfluo per permettere anche ad altri – nel mondo – di mangiare almeno una volta al giorno. Grazie alla rinuncia del nostro superfluo!
Mi fermo qui.
Avrei potuto usare un linguaggio piu' moderato, piu' diplomatico, ma ne vale la pena? Non credi che sia arrivato il tempo della chiarezza, di dire francamente le cose come stanno? Diciamo no alla “ricostruzione” secondo un modello socio-educativo che ha prodotto solo disastri! Quale altro modello? Un modello fondato sul nuovo paradigma sperimentato per 30 anni nelle scuole di Alice, ad esempio. Un paradigma fondato, prima di tutto, sul valore della Saggezza (corretta visione dei fenomeni!) e poi della solidarieta’, dell’amore, della cooperazione, della condivisione e della rinuncia. Rinuncia? Si’, il contrario dell’attaccamento, del desiderio e della greediness, per permettere - come dicevo sopra - a tutti di sopravvivere, con-dividendo equamente le risorse di Madre Terra, ispirandoci a nuovi (e antichi) modelli di sviluppo e di vita: San Francesco, Milarepa, i saggi Cherokee, Chief Seattle, Ramakrishna, Madre Teresa, Vivekananda, Gandhi...
Per tutto quello che ho scritto sopra, per evitare che il Progetto Alice scompaia nel polverone della crisi mondiale, chiediamo- un po’ provocatoriamente - di essere inseriti tra le vittime del terremoto e, quindi, di usufruire dei “vantaggi” di questo status di vittime.
Scusa se ho ferito qualcuno, ma non era mia intenzione.
Love
Valentino

Valentino Giacomin


La mente in cammino

15-04-2014

La spedizione nel Borneo era finanziata dall’Università di Vienna, ma i fondi erano limitati , e quindi per guadagnare tempo l’antropologo Max Knaus marciava  rapido alla testa della spedizione. I portatori a un certo punto si fermarono .
“ Siete stanchi ? “ 
“ No , ma siamo andati troppo veloci e le nostre anime sono rimaste indietro “. E la spedizione si fermò per aspettarne   l’arrivo. Forse il jet leg è fenomeno più complesso del solo adattamento del ritmo sonno veglia.  Un’amica svedese è  andata  in missione a Giacarta per la Croce Rossa il lunedì ed  è rientrata a Stoccolma il giovedi : che contributo avrà dato nel lavoro , e che contributo darà alla famiglia tornata a casa ? E la sua anima, quando arriverà ?
  Qualcuno resiste . il viaggio lento trova sempre nuovi adepti : a piedi, con gli asini, andando vicino e scoprendo quello che chiamo “l’esotico dietro l’angolo “.
In molti riscoprono il camminare , viaggio lento per eccellenza : le reazioni  dei sedentari sono  stupite, parecchi trovano  bizzarro che una persona impieghi una settimana per un itinerario che in macchina richiederebbe un’ora  . Eppure il numero dei camminatori cresce : esistono riviste dedicate al trekking ; il pellegrinaggio nei luoghi sacri , che si tratti di Santiago o dei percorsi francescani,   non attrae solo i credenti. Penso   del resto che il trekking sia una sorta di pellegrinaggio laico, la ricerca di un rapporto smarrito con la natura e con se stessi. La camminata lenta cambia la mente, ci lega al momento presente. Non è una novità : questa forma di meditazione è una pratica presente in molte tradizioni orientali , dallo zen alla vipassana , senza dimenticare i peripatetici dell’antica Grecia , o i chiostri dei monasteri, perfetti per un cammino di preghiera. Anche se non abbiamo intenzioni così elevate , qualcosa succede : i sensi si risvegliano, cogliamo dettagli che abitualmente ci sfuggono  e ho notato che si fissano nella  memoria a lungo termine . Tornato  con fotografo sui luoghi di un lungo cammino di un mese attorno a casa che volevo raccontare in un libro, ero sorpreso di sapergli dare indicazioni così precise sui sentieri, io che non brillo per senso dell’orientamento . Si può andare  perfino  più piano che a piedi : un viaggio con gli asini è più lento del camminare normale. Un curioso studio del Touring club svizzero ha misurato la velocità media dell’asino in 2,3 chilometri l’ora, mentre un camminatore ne fa almeno 4. Lo abbiamo sperimentato io e Visentin in un  viaggio fatto con gli asini. Il continuo stop and go poteva suscitare impazienza, ma c’era comunque da coordinarsi, da trovare un accordo con i nostri somari. Il giusto ritmo, insomma.
Quando camminiamo gli organi di senso si risvegliano, appena troviamo il nostro passo, quello in cui il battito del cuore comanda il respiro e le gambe vanno .
 Forse anche le nostre anime sono rimaste indietro . L’eccesso di  velocità è un male moderno ? E’ un male ?
Al Festival della mente a Sarzana faremo, io e Claudio Visentin, una sorta di camminata filosofica : l’ abbiamo chiamata “La mente in cammino “. E’ una tappa di una riflessione e una pratica del viaggio lento che va avanti da tempo . ‘Lento’ contro ‘veloce ‘ ? Ovviamente dipende dal contesto: pensiamo a diverse attività umane : mangiare, correre , studiare, fare l’amore, produrre… scegliete voi a quali si addice la velocità, a quali la lentezza. Cosa c’è tra ‘lento’ e ‘veloce’ ? Esiste una virtuosa via di mezzo ? la risposta giusta non me l’ha data uno scrittore, ma un musicista :’a tempo’. Questione di ritmo. Il passo è ritmo, alternanza armoniosa del movimento delle braccia e delle gambe, si perde volutamente l’equilibrio statico per ritrovarlo più avanti, dinamico ,nel prossimo passo .

Tutti si lamentano della mancanza di tempo  , e non da ora. I meno giovani ricorderanno un fortunato spot dell’amaro Cynar  : Ernesto Calindri sedeva al tavolino  e si beveva un bicchierino nel mezzo di un incrocio tra lo sfrecciare delle macchine, “ contro il logorio della vita moderna”. Erano gli anni sessanta, stress, burn out e sindrome della fatica cronica non erano forse popolari, ma già ci si lamentava.

Il problema sono le protesi meccaniche . finche si trattava della bicicletta ci volevano le gambe per spingere sui pedali, e quindi era il battito del cuore a scandire l’andare, ma con l’automobile tutto cambia. Arrivare presto alla meta diventa una soddisfazione irrinunciabile : si va in autostrada per guadagnare un’ora , compare l’espressione “ da casello a casello “, le strade provinciali vengono abbandonate. Quanti di noi, facendosi calcolare un  itinerario su internet, non scelgono il più rapido ? Per l’Alta velocità  si spendono diecimila milioni, rischiando di devastare paesaggi e città ,pare però che ci si metta mezz’ora in meno da Milano a Firenze.  Noi non siamo fatti per andare così veloci, e ci non basteranno migliaia di anni  per adattarci. Dal finestrino del treno il paesaggio scorre troppo veloce, lasciamo perdere e leggiamo il giornale fino all’ultima riga, o accendiamo il computer “per guadagnare tempo”. In aereo , una rapida occhiata alle montagne innevate,e poi filmetti tagliati per farli finire alla svelta , prima dell’atterraggio, riviste patinate della compagnia tutte uguali, tutto pur di ammazzare il tempo, ed è espressione che usiamo senza pensare alla valenza criminale dell’atto.
“ Il giorno di ieri è passato, il giorno di domani non l’hai ancora visto,  oggi il Signore ti aiuta.”
Ma per stare nell’ oggi occorre dilatare i tempi e trovare spazi di ozio, dosi omeopatiche di tempo che si dilatano nell’animo. Scriveva Cicerone : “ cosa c’è di più dolce dell’ozio letterario ? Alludo a quegli studi  per mezzo dei quali arriviamo a conoscere l’infinita natura, e il cielo e la terra e i mari, mentre siamo ancora nel mondo .” E lo scrittore Joseph Conrad disse : “ diventa sempre più difficile convincere mia moglie che , quando guardo fuori dalla finestra, sto lavorando.”
 A Genova, a una tavolata del premio letterario intitolato a Chatwin, uno che andava a piedi, c’erano fotografi, scrittori, psicologi e Luciana Damiano l’organizzatrice: scrivemmo su una tovaglietta il manifesto di Slow Foot, piede lento, espressione semigoliardica della nascita di un movimento di resistenza. Alla fine del pranzo tutti andarono via di furia, presi da mille impegni .

Andrea Bocconi


I Sogni

15-04-2014

I sogni sono un po’ come gli specchi dei Luna Park; ti metti di fronte a loro e vedi te stesso, è sempre la tua realtà, sei sempre tu, ma c’è qualcosa di diverso.

 È una realtà distorta, una realtà diversa, una realtà nascosta, che è incomprensibile e familiare allo stesso tempo.

Il sogno porta in un mondo parallelo, in cui ritrovare, scoprire e conoscere tutti i pensieri nascosti, che a volte sono nascosti così bene che nemmeno noi ne siamo a conoscenza.

  I sogni racchiudono l’esperienza, la memoria, la coscienza, il pensiero.  Accumulano tutto, e poi mischiano le carte; analizzano, trasformano, sezionano la vita e ti rendono la loro versione della storia solo quando sanno che non puoi fare a meno di saperla. Perché dai sogni non si scappa, e nel sonno si è costretti a rivedere un riflesso distorto, e maledettamente vero, di tutto ciò che ci preoccupa, che ci rattrista, che ci affascina, che ci rende felici.

 I sogni per me sono anche un rifugio, un rifugio dalla realtà, perché nel sonno posso rivivere tutto ciò che mi ha fatto stare bene, e anche tutto ciò che purtroppo mi manca terribilmente. Nei sogni posso rivedere le persone a cui tengo, stare con loro, e a volte desidero così ardentemente di averle al mio fianco, che mi sveglio con il viso bagnato di lacrime, perché malgrado tutto, so perfettamente che “è solo un sogno”.

Martina, II media

 Ma i sogni sono arcobaleni trasparenti, lenti di ingrandimento appannate, sono dubbi e desideri, sono specchi deformanti della nostra coscienza.  Infondo i nostri sogni dipendono da noi; i nostri sogni siamo noi; come disse Shakespeare, “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”.


Cercare l'acqua, cercare il cielo

15-04-2014

Assagioli scrisse “ Libertà in prigione”, durante la sua breve detenzione. Sappiamo tutti che proponeva diario e autobiografia a pazienti e allievi. Meno nota la sua fiaba Fabula in re interiore che contiene molti temi psicosintetici. Jonathan Franzen, intervistato da Fazio sul nuovo romanzo, Libertà, ha citato una frase di un altro scrittore di culto, Don De Lillo :” la scrittura è un‘esperienza di libertà”. Quale libertà ? E' una di quelle frasi su cui concordiamo tutti istintivamente, ma le cose si fanno più complesse se ci mettiamo a riflettere. L’opposto di libertà che mi interessa esplorare qui è costrizione, non prigionia, vedremo perché. Una traccia di questa riflessione sarà distinguere tra libertà da, libertà di, libertà con, libertà per.

Costrizioni

1 Libertà da : Ignoranza : in Italia il tasso di alfabetizzazione è un rispettabile 98,9, eppure siamo solo al 46 ° posto sul 179 paesi, di cui ben 125 sono sopra all’ottanta per cento. Quindi possiamo dire che da noi la totalità della popolazione dispone di questo mezzo espressivo. Si obbietterà che molti ne dispongono in modo rudimentale, ed esiste anche un analfabetismo di ritorno. E’ assolutamente vero, ma un’esperienza condotta nel carcere di Arezzo dal 1998 al 2000, con un gruppo di scrittura composti da detenuti con scarsa scolarizzazione, molti dei quali stranieri che si esprimevano quindi in seconda lingua, ha dimostrato che vi era comunque la possibilità di raccontare e di raccontarsi in modo efficace e interessante. Avevamo perfino un analfabeta che dettava i suoi racconti nel dialetto di Molfetta a un conterraneo che li trascriveva e ce li traduceva.

2 Povertà : Joanne Rowlings ha completato il manoscritto del primo Harry Potter scrivendo in un pub, madre single, mentre viveva di sussidi statali, in preda di una grave depressione . E’ uno strano destino quello di essere passata dall’indigenza a essere la seconda donna più ricca di Inghilterra dopo la Regina.

3 Potere : Silvio Pellico, imprigionato ai Piombi di Venezia per dieci anni, scrisse Le mie prigioni , che Mettrnich disse aver causato più danni all’Austria d una battaglia persa. Le Lettere dal carcere di Gramsci sono una testimonianza di valore assoluto, che viene studiata in tutto il mondo, “ moderno breviario dei laici”, come è stata definita l’opera. Pensare che , con una certa lungimiranza, il presidente de Tribunale speciale che condannò Gramsci, disse : “bisogna impedire a questo cervello di pensare per venti anni.” Il potere tirannico ha sempre temuto gli scrittori : Cuba, Cina, Bangla Desh sono esempi recenti, ma si può dire che tutti i regimi dittatoriali temano la scrittura. Spesso i dittatori avevano un rapporto ambivalente con gli scrittori : Hitler protesse Junger pur censurandolo, Stalin fece lo stesso con Bulgakov, ma al tempo stesso esercitava la sua paranoica perfidia perfino coi poeti. Memorabile la telefonata nella notte a Pasternak : cosa pensi compagno Pasternak della poesia di Mandelstam ? Pasternak capì subito che era una di quelle torure psicologiche che annunziavano il gulag per il suo amico, rivale in poesia . -Compagno Stalin, vorrei parlare con te della vita e della morte- -Se avessi un amico poeta, saprei difenderlo meglio-

4 Malattia

Moravia, malato di tubercolosi , costretto a letto per anni, scrive Gli indifferenti in convalescenza, appena uscito dal sanatorio. La Benzi scriveva anche nel polmone d’acciaio in cui era costretta a vivere.

5 Libertà dagli ingombri . Ho sempre compianto chi suona l’arpa o il contrabbasso: chi scrive se la può cavare con un taccuino e un lapis.

6 Libertà dalla cosiddetta realtà. La realtà viene trasfigurata , simbolizzata, reinventata e quindi sconfitta. Esiste il genere Fantasy, che crea altri mondi in cui chi scrive può immergersi per anni. Spero che Salgari abbia tratto qualche sollievo dalle ore passate con Sandokan e con i suoi corsari, lui costretto a una vita tristissima e sfortunata. E sappiamo che in Malesia non c’era mai stato, ma la sua Malesia è esistita per tanti di noi.

7 Libertà dal tempo il tempo della scrittura, come quello del sogno, è plastico e la freccia del tempo può seguire ogni traiettoria: è la vera “ macchina del tempo”.

8 Libertà dalla materia. Tutte le forme espressive devono fare i conti con un mezzo materico, che sia il marmo statuario di Michelangelo, i materiali da costruzione dell’architetto, la tela del pittore. La scrittura non ha neppure bisogno di se stessa. Come i lettori di Fahreneit 451 imparavano a memoria i libri per salvarli dai roghi della psicopolizia, così che scrive può fare lo stesso col proprio testo, che esisterà solo nel cervello o diverrà suono intangibile se verrà detto ad altri. La moglie di Mandelstam salvò le poesie del marito, imparandole a memoria.

Vediamo quali sono allora le complementari libertà di

9 Naturalmente quella di fingere. Scrive August Strindberg , in una lettera in cui incita la sua amante a scrivere : “Si ha libertà di mentire su se stesso, su tutti ! Evochi nemici invisibili, inventi avversari (…). Si può dire ciò che si vuole- essere folli- non tutti possono permetterselo e fra quelli che sono abbast6anza fortunati da poterlo, non molti osano.” .Ma la finzione è solo un altro livello di realtà, da voce alle nostre parti più nascoste, talvolta mute, è un improvvisazione jazz in cui ogni membro della band ha il suo momento di gloria con un assolo. Diritto di parola !, chiedono le subpersonalità , e da ogni piano dell’ovoide si odono voci.

10 Sfogarsi Il valore catartico è indubbio, Assagioli raccomandava l’uso delle letteracce ,( da non spedire) e chiunque le abbia utilizzate, personalmente o con i propri pazienti, sa che non solo fanno bene, ma in corso d’opera prendono direzioni inaspettate, esprimono emozioni e sentimenti che non sapevamo di avere. La “ lettera al padre” di Kafca, mai racapitata, ne é un esempio. Pennebaker ha dimostrato che il sistema immunitario reagisce positivamente alla pratica della scrittura : gli studenti che mettevano su carta i loro traumi venti minuti al giorno per cinque giorni , si ammalavano molto meno del solito nell’anno successivo. E questo senza avere ricevuto alcun commento sui loro scritti.

11 Denunciare

“Arcipelago Gulag” di Alexander Solgenitsin squarciò il silenzio sui campi di concentramento per i dissidenti , e il libro dette al suo autore sia il Nobel che l’esilio. Nella Russia zarista Cecov testimoniò da medico scrittore i disastri della psichiatria in “Padiglione numero 6”. Chinoua Akebe mostra le tragedie dell’Africa postcoloniale. L’elenco è infinito e tocca quasi tutto il pianeta, come le denunce di Amnesty International , ma in modo perfino più efficace e duraturo.

12 Testimoniare Pensiamo solo al diario di Anna Frank, agli scritti di Hetti Hillesum. Il racconto di chi c’era, senza alcun intento di pubblicare un diario che forse, come quello di tutte le adolescenti, voleva essere segreto. Il lavoro sul Diario di Ira Progroff ha insegnato a decine di migliaia di persone come utilizzare psicologicamente questo strumento di consapevolezza nel dialogo con se stessi. A Pieve Santostefano da anni si premiano i diari che ci raccontano un’Italia nascosta. Suo esempio massimo è quello scritto da una contadina su un lenzuolo del corredo, che comincia con la frase : gnianca una bugia.

13 Cercare

Ho paragonato talvolta la penna alla bacchetta del rabdomante, che scopre l’acqua sotterrenea seguendo delle vibrazione spontanee. Occorrono la volontà di cercare, la sensibilità, la capacità di ascoltare. Ma pensando ai livelli della coscienza, potrebbe anche essere l’antenna verso il cielo, così potente da cogliere segnali che giungono da livelli invisibili e lontanissimi.

14 Riflettere

Quante volte un ragionamento interessante, una buona intuizione, sono svaniti perché non li abbiamo messi su carta ? Si racconta che Majorana, il fisico misteriosamente scomparso avesse gettato il pacchetto di sigaretta su cui aveva annotato una formula che fruttò ad altri un Nobel. E mi commuove Evariste Galois, che passa la notte prima del duello ad annotare furiosamente teorie ed equazioni , saltando passaggi perché “ non c’è tempo”. Verrà capito qualche decennio dopo la sua morte, in quel duello.

15 Riorganizzare, trovare il senso Ha scritto Montaigne, uno dei maestri dell’autobiografia, che la vita nella prima metà è come un bel tappeto dai colori affascinanti, mentre nella seconda metà è come il suo rovescio : meno bello a vedersi, ma si capisce la trama. Nella scrittura autobiografica, altra pratica raccomandata da Assagioli, che la chiedeva anche ad allievi molto giovani, nel viaggio di memoria che può seguire infinite strade, si ritrova un filo rosso, un senso, un destino. A volte capiamo anche qual è il proposito, il progetto del Se che cerca di manifestarsi nella nostra vita. Ad Anghiari esiste addirittura la Libera Università dell’Autobiografia , che ha sviluppato una pedagogia della memoria scritta con moltissime applicazioni. Io stesso conduco da anni seminari di scrittura autobiografica, col proposito di fare un percorso psicosintetico attraverso la scrittura , magari senza nominare mai la psicosintesi.

Libertà per

16 Per se stessi In nome di chi si parla ? Che differenza c’è tra il pensiero solipsistico e la scrittura più intima ? Una giovane filosofa, Ilaria Mezzogori, scrivendo su Identità e narrazione riflette sulla tremenda solitudine del Minotauro nel labirinto ; nel racconto di Durrematt. Egli/ esso non sa chi é, e anche quando infrange lo specchio ogni frammento gli rimanda infinite illusioni . Sarà l’incontro con il suo carnefice Teseo a liberarlo, e Borges adombra che si lasci uccidere. Teseo senza il filo in mano non ritroverebbe l’uscita, e quindi non potrebbe dire la storia. Anche nel più intimo diario c’è un altro se, un Io che scrive e un Io che legge.

17 Per la propria gente Assagioli, che utilizzava con me una massiccia biblioterapia, mi prescrisse In nome dei miei, , di Martin Gray, il raccolta della rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia : scrive Gray :” "Non c'è totalità se si è un albero isolato, è la foresta che dà un senso all'albero e che lo rende vigoroso." Chi scrive , spesso non volendo, dà voce alla sua gente e al suo tempo. Questo accade sia che si tratti di opera di invenzione, saggio, diario, o scritto autobiografico. Oltretutto le distinzioni tra generi sono in gran parte superate, e le distinzioni tra vero e falso discutibili. Se si vuole scoprire chi è un autore, meglio cercarlo nelle sue opere di narrativa che nell’autobiografia.Nei miei corsi mescolo generi e strumenti, ed evito di interpretare: a volte un corso di scrittura di viaggio fatto con la Scuola del Viaggio in un contesto vacanziero ha avuto effetti trasformativi importanti e imprevisti. Ho prposto scittura anche a rifugiati, studenti, psicologi e counsellorche lo applicano poi con pazienti e gruppi di autoformazione. Autobiografia, racconto, elaborazione di simboli e miti : l'importante è ascoltare la propria voce , manifestarla riducendo sempre più lo scarto tra ciò che abbiamo da dire e come lo diciamo. Il lavoro di editing ha valenza formative e perfino terapeutiche.

18 Nihil humanum mihi alienum puto I grandi mistici, il Francesco del Cantico delle creature, il persiano Rumi, Milarepa , hanno sempre cantato il Sé , e il Sé universale. Sono poeti, perché le regioni del Sé le illumina meglio la sintesi poetica. Voglio ricordare qui con affetto Giuliana D’ambrosio, volontà amica e gentile, che nei congressi ci regalava spesso poesia .

In conclusione, cosa c’è di più difficile che parlare del Sé Universale . Ecco come ce lo porta un maestro moderno, Tich Nat Han , nella poesia

Chiamami col mio vero nome

Il ritmo del mio cuore è la nascita e la morte di tutto ciò che vivo. Io sono un insetto che muta la sua forma sulla superficie di un fiume. E io sono l'uccello che, a primavera, arriva a mangiare l'insetto. Sono un bambino in Uganda, tutto pelle e ossa, le mie gambe esili come canne di bambù, e io sono il mercante che vende armi mortali all'Uganda. Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca, che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata. E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare. Per favore chiamatemi con i miei veri nomi, cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risate insieme, cosicché io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono una cosa sola. Per favore, chiamatemi con i miei veri nomi, cosicché io mi possa svegliare E cosicché la porta del mio cuore sia lasciata aperta, la porta della compassione.

(Thich Nath Hanh)

Andrea Bocconi
Relazione al Congresso di Psicosintesi Varese 2011


La Psicologia è razzista?

14-04-2014

Secondo me lo è e neppure lo sa. Molti manuali la fanno nascere come disciplina autonoma col primo laboratorio di psicologia sperimentale, creato a Lipsia da Wundt nel 1879. Altri si rifanno ad Aristotele, che scrisse il De anima, circa ventiquattro secoli fa. Europa insomma.

E gli altri ? Intendo i primis il mondo orientale : in India, in Cina,in Tibet,  in Giappone sono state elaborate raffinatissime psicologie, e prassi molto sofisticate ed efficaci per trasformare la mente. Nei miei anni universitari non ho trovato traccia di questi saperi , di questi saper fare.

Dell’Africa sappiamo ancora meno, eppure qualcuno ha paragonato la cultura Dogon  per complessità e raffinatezza a quella greca classica : se ne sono interessati gli etnopsichiatri , in Italia  Piero Coppo , Lelia Pisani e altri. Abbiamo molto da imparare dai dispositivi di cura  dele altre culture, e inoltre le immigrazioni ci portano in casa altre visioni del mondo, che gli psicoterapeuti fanno fatica a  capire e quindi a curare.  Certo non possiamo essere esperti di tutto, ma si tratta di costruire un approccio con l’altro e col suo mondo meno arrogante, meno limitato.

Ma per ora  l’etnocentrismo, per cui il bianco occidentale crede di portare il lume della conoscenza,   prevale, anche se non osa più dichiararsi esplicitamente. Spesso non si sa neanche di essere infettati da questo virus. Si crede di fare scienza, ed è scientismo. Nella medicina è ancora più evidente ; si snobbano pratiche terapeutiche cha sono fondate su esperienze millenarie.

Per fortuna ci sono le eccezioni : Jung , Assagioli che ingloba nella psicosintesi molti concetti e pratiche della tradizione orientale e non solo. L’importante è il confronto senza gettare alle ortiche il nostro sapere , la nostra identità, perché esiste anche questo rischio di segno opposto : trapiantare pratiche sciamaniche sudamericane o siberiane completamente fuori contesto, in lucrosi fine settimana. Anche la psiche, e forse soprattutto la psiche, come merce da vendere, magari contraffatta


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