Isola di Kere

 

Faro di Punta Sophia Psuke Baia della Vera Finzione Rocca Grotta della Memoria

La Tartaruga di Gauguin

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Editore: Guanda
Pagine: 130

Recensione

Parlare di viaggio ai carcerati. La tartaruga di Gauguin riuscirebbe a fare anche questo. Anzi, annulliamo l’ipotetico. La tartaruga di Gauguin riesce a parlare a chi non ha mai viaggiato. A chi è sempre stato chiuso fra quattro mura, casomai in una piccola città. Una piccola città come quella in cui l’autore, Andrea Bocconi, è nato e cresciuto. Andrea però è riuscito ad allontanarsi dalla sua realtà, per raccontarne altre. E sono quattordici le storie che questo lucchese, aretino d’adozione, ci presenta nel suo ultimo libro. Storie in cui parla di quattro continenti. C’è l’Europa. L’Italia dove ad Arezzo un bambino impara a parlare, usando parole apparentemente insensate. L’Italia dove a Forte dei Marmi un uomo va sempre in vacanza nella seconda metà di giugno. C’è l’Asia, con Bombay e Singapore. C’è l’Oceania con Bali, Uttar Oradesh, Giava. C’è Tahiti, dove si snoda il racconto che dà anche il titolo al libro. Il racconto più bello, forse. Protagonista è Sandro Manetti, professore di storia dell’arte di Lucca, che parte alla ricerca del pittore preferito: Gauguin, inseguito già in Bretagna e in Danimarca. Manetti che lascia a casa la bella fidanzata, si invaghisce di una montagna di donna, Ayu, conosce un uomo misterioso, lo zio della ragazza thaitiana. Un mistero, che collega il pittore parigino all’insegnante lucchese, nasce e cresce durante la narrazione, attraverso una tartaruga che vive nella natura delle descrizioni, attraverso le parole del saggio zio. “Non tutti muoiono” dice, il vecchio, a Manetti quando calpesta il Pesce Pietra e gli chiede come fa ancora ad essere vivo.

Protagonisti delle storie sono i personaggi, che diventano un tutt’uno con i luoghi. Facce e storie così simili anche se così lontane dal punto di vista geografico. C’è il ragazzo che non alza lo sguardo e studia e conosce e parla con il mondo guardandogli le gambe, i piedi, il modo di camminare. C’è la donna che dopo un viaggio in India quando torna è cambiata, grazie ad un bellissimo acquisto. Ci sono poi quelli che riconoscono gli elfi e quelli che non ci credono, o almeno vorrebbero. E poi c’è il Dott. Agung, che comunicava con la pittura. Dipingeva in maniera ossessiva sempre lo stesso soggetto, appendendolo alle pareti di casa, pretendendone l’affissione in quelle degli altri. La normalità e la realtà quotidiana, che si intrecciano e si annullano, o completano, quando, d’un tratto, sopraggiunge la volontà di stare zitti. Di chiudere la bocca. Cucirla. Forse ascoltare. Un’espressione di sé che si articola, poi, in passeggiate nelle risaie, caffè al bar, musica di xilofono. Un silenzio che è fatto, soprattutto, di aquiloni costruiti con sacchetti di plastica. Aquiloni che volano nel cielo, mossi dal vento. Senza pretese.

“C’è chi viaggia sempre e non parte mai; c’è chi parte e va lontano senza bisogno di viaggiare; c’è chi parte e non viaggia e chi non parte e non viaggia” dice Andrea. E lo fa attraverso le parole scritte sulla copertina, su uno sfondo verde e rosso, con delle palme gialle, stilizzate. E sembra quasi impossibile non credergli, che esista qualcuno che arriva lontano anche senza preparare i bagagli. Soprattutto dopo aver letto. Anzi, dopo aver viaggiato con lui, in Sierra Leone, in Turchia, in molte parti del mondo. Dopo aver viaggiato così a lungo. Con così tanto piacere.
 

da " La tartaruga di Gauguin", racconti , Guanda 2005

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Sandro Manetti era professore di Storia dell'arte al Liceo Machiavelli di Lucca, ma non solo, perchè per completare l'orario di cattedra doveva anche insegnare al Classico di Viareggio. Era il destino dei professori di Storia dell'arte, con quella misera ora alla settimana di lezione che il ministero aveva loro concesso.
Il Machiavelli era infinitamente più prestigioso dell'altro : molti scappavano da Lucca per trovare sentieri più accessibili a Viareggio, il contrario non accadeva mai. Il secondo liceo classico di Italia, dicevano i bidelli e i professori più stupidi .Come fosse stata fatta la graduatoria nessuno lo sapeva.
A scuola era molto amato per gli atteggiamenti libertari e le splendide lezioni sulla pittura . Quando spiegava gli impressionisti leggeva brani di poesie , ricostruiva la vita nei caffè, arrivava ai quadri come se li accompagnasse tutti nell'atelier dei pittori dopo una serata passata assieme a Montmartre. Le gite scolastiche a Parigi con lui avevano segnato più di una coscienza.
Manetti era un uomo intelligente , alto e robusto, un po' più vecchio dei suoi anni : sui quaranta, era fidanzato da almeno trenta con la Tempesti, una collega di Viareggio. I loro litigi durante le gite scolastiche erano memorabili . Qualunque fosse il pretesto, il vero motivo era chiaro a tutti: stava volentieri con la sua fidanzata, ma non aveva voglia di sposarsi .
Adduceva alternativamente i motivi ideologici ( era ateo anarchico ) e le difficoltà economiche. Con la questione di principio aveva brillantemente stoppato ogni possibile legalizzazione di questa unione : della chiesa neanche a parlarne, ma anche il matrimonio in municipio era inaccettabile per un anarchico. Nessun potere istituzionale doveva interferire con la sua vita privata .
Compiuti i quarantuno, il 14 di aprile, aveva scoperto con orrore che albergava in lui qualche voglia di cedimento. Il monolocale minimalista in cui viveva sul Monte di Quiesa, a metà strada tra Lucca e Viareggio, gli sembrava sempre più triste , specie nel piovoso autunno lucchese.
Dopo una serata romantica in cui lei lo aveva piacevolmente sorpreso Manetti aveva accennato alla possibilità di una convivenza. Certo c'erano parecchi problemi da risolvere, lei avrebbe dovuto lasciare soli i genitori ormai vecchi, il monolocale andava stretto anche a lui, insomma ci voleva un'appartamento più grande, oltretutto era chiaro che anche simbolicamente dovevano cominciare in un posto nuovo questa nuova vita.
Il sedici di maggio del 1984 lei, tramite un giro di conoscenze che includeva un bidello e la di lui zia, aveva trovato un appartamento sfitto in città a Lucca, merce rarissima in quegli anni di blocco dei fitti. Era da rimettere un po', lo aveva detto anche la zia.
In altre parole era cadente, chiuso da almeno trent'anni, gli infissi a pezzi e un bagno che la diceva lunga sull'interesse per la pulizia di chiunque ci avesse abitato . Il capolavoro era un gigantesco scaldabagno a legna di rame, che piacque molto a tutti e due , ma era chiaro che non serviva a niente. Del resto la sola idea di farsi il bagno in quella vasca scrostata di smalto e incrostata di chissà era disgustosa, aveva detto lei .
Almeno il bagno andava rifatto. Il preventivo li gettò nello sconforto, ma decisero comunque di cominciare i lavori nelle vacanze estive. Manetti tremò all'idea di rinunziare alle sue bellissime ferie in Vespa per campeggi.
Il sei giugno 1984 azzeccò un terno secco sulla ruota di Bari che giocava da sei anni, dopo un sogno in cui gli erano apparsi Gauguin e Van Gogh . Gauguin diceva all'altro : resta a Lucca , scemo, io me ne vado a Tahiti. Si era giocato 48, 53 e 88 : le date di nascita dei due e l'anno in cui i suoi eroi stavano ad Arles, ove Van Gogh aveva cercato di uccidere l'amico ed era poi finito in manicomio.
Non capiva che c'entrasse Lucca, o meglio,non lo aveva mai capito fino a quel momento, ai sogni poi non aveva mai prestato attenzione, considerando la psicoanalisi una curiosa forma d'arte, ma niente di serio.
Fu lì che tradì per la prima volta la sua fidanzata : un istinto più forte di lui lo ispirò a non dirle nulla. L'idea che quei cinque milioni finissero nel bagno era insopportabile . ora la frase di Paul ( era il suo eroe e dentro di sè lo chiamava sempre per nome ) gli si svelava potente : tu resta a Lucca, scemo, io vado a Tahiti. Eh no, lo avrebbe seguito a Tahiti, era il sogno della sua vita vedere i colori che avevano fatto esaltare Paul : " basta con le timidezze cromatiche ! ".
Sapeva tutto della sua vita, ne aveva seguito le tracce in Bretannia e perfino in Danimarca per vedere quelle luci del nord che aveva reso magistralmente. Gli mancava solo la Polinesia.
In gran segreto disegnò l'itinerario, acquistò un biglietto dell'Air France, così poteva anche passare due giorni a Parigi e il giorno della fine della scuola disse alla fidanzata che partiva per un viaggio da solo, una specie di addio al celibato. Quando lei seppe dove andava lo fece scendere di macchina e se ne andò.
" Quando torno la sposo , si disse con convinzione, andrà tutto a posto."

Non si fermò neppure a Parigi, tempo sprecato, quando c'era Tahiti che lo attendeva. Era la prima volta che faceva un volo così lungo, lo passò leggendo la guida da viaggiatore indipendente che gli aveva consigliato il suo libraio, un sedentario esperto in viaggi.

Tahiti

Atterrò all'aeroporto di Fa'aa all'alba e scese dall' aereo per ultimo, per potersi fermare sulla scaletta un momento. Voleva assaporarselo bene quel momento, il viaggio era fin troppo rapido ; non era proprio come arrivare dal mare , Gauguin, che ci aveva messo due mesi e mezzo . L 'aria era fresca e secca e si sentiva un profumo dolce . Avrebbe scoperto poi che erano i fiori tiarè ,proprio quelli che ornavano le donne di Gauguin .
Aveva quasi due mesi per seguire le tracce di Paul . Bastava essere a scuola il primo di settembre. Aveva portato con sè un blocco da disegno, matite, chine, colori .
A Papeete scoprì di essere povero, tutto era carissimo ; dall'albergo medio che aveva scelto si trasferì subito in un Travel Budget Hotel frequentato da ragazzi assai più giovani di lui che aspiravano solo ad andarsene in cargo verso le Tuamotu o le Marchesi. Bastavano i nomi a mettergli i brividi, ma non voleva essere troppo precipitoso. Paul aveva cominciato da lì .
Mangiava solo la sera nellequasi economiche roulotte sul lungo mare,di ristoranti neanche a parlarne; durante il giorno se la cavava con la frutta e le baguette. Prendeva l'autobus e girava per l'isola, che poi erano due , Tahiti Nui e Tahiti Iti, la grande e la piccola. Il secondo giorno prese l'autobus per il sud dell'isola grande, dove si trovava il museo Paul Gauguin.
Ci si arrivava dal giardino botanico e lui se la prese calma , voleva prima riempirsi gli occhi di bellezza, voleva addestrare lo sguardo a quei colori, conoscere i nomi dei fiori. Contro tutti i consigli si levò gli occhiali da sole, anche se la luce era troppa e troppo nitida . Entrò finalmente al museo e scoprì che non avevano neanche un quadro vero, solo riproduzioni. Pensò con rabbia ai francesi che non avevano sentito il dovere di levarne almeno uno dai musei parigini , per restituire qualcosa a quella terra generosa.
Del resto che c'era da aspettarsi da quei colonialisti che venivano fin lì per fare gli esperimenti atomici ?
Ricordò il fastidio di Gauguin per quella specie di imitazione tropicale della vita parigina messa su dai suoi compatrioti , che aveva già contaminato i tahitiani ai suoi tempi, nel 1891.
Lo aveva scritto nel suo diario :”la vita a Papeete mi venne a noia assai presto. Era l’ Europa, l’ Europa da cui avevo creduto di essermi liberato, con l’aggravante dello snobismo coloniale, della scimmiottatura puerile e grottesca fino alla caricatura. Non era questo che ero venuto a cercare da tanto lontano. “
Si chiese se non doveva anche lui trasferirsi a Mataiea, a sud di Papeete, lontano dalla grande città. Tornò nel giardino botanico a guardare i colori violenti degli ibiscus : non osò tirare fuori le matite , si contentò di ritrarne uno a china, in modo dettagliato, quasi pedante. Quando finalmente alzò gli occhi e si avviò alla fermata dell'autobus scoprì che era già partito l'ultimo. Dopo un momento di stizza subentrò una gran calma : che aveva mai da fare a Papeete quella sera, dopo tutto ?
Guardò la carta : Mataiea non era poi così distante, forse poteva trovare un passaggio. Intanto avrebbe camminato lungo la costa .
Aveva fatto un paio di chilometri quando un camioncino pick up carico di merci si fermò. Salì dietro e si godette la brezza e la strada costiera. La baia di Mataiea era bellissima, il paesino era caratterizzato da una curiosa chiesa battista. Il vecchio si fermò alla chiesa per farlo scendere. Non gli chiese chi era né da dove veniva, ma sembrava non avere fretta di ripartire. Ringraziò il vecchio che gli offrì anche una sigaretta.
" Non fumo ", disse, e subito se ne pentì. Avrebbe potuto fare due chiacchiere. Scese e cercò una pensione, che non c'era. Il tramonto era rosso violetto. Si rimise in cammino, pentito di non avere preso il passaggio fino a Papeete. Forse sulla costiera avrebbe potuto trovare un'altro passaggio. Camminava con un'energia che non aveva mai provato da quando era arrivato. Non sembrava uno sperso, sembrava uno che sta andando in un posto . Del resto gli avevano detto che a Papeari c'era un'affittacamere cinese. Erano solo due o tre chilometri , ma il sole stava calando rapidamente. Al bivio prese verso il mare e vide una specie di collinetta. Era un buon punto per ascoltare il tramonto.
Difatti c' era un gran silenzio. Camminava piano: la collinetta era fatta di grandi blocchi di basalto . Finalmente capì, era un Marae, uno degli della antica religione polinesiana. una specie di grande piattaforma di almeno settanta metri, come un gigantesco altare. Lì si facevano sacrifici umani fino a solo cento anni prima. Scese, a disagio. Non era impaurito per niente, ma l'aria del Marae gli pareva di un silenzio denso. Si allontanò di poco e trovò un posto riparato tra la spiaggia e il Marae, sotto a un albero.
Ormai si era fatto buio, scelse di restare lì per la notte. Ci mise molto ad addormentarsi : chissà a chi era dedicato questo Marae, forse ad Oro, dio della guerra o a Hiro, il Dio dei ladri che scagliava la sua piroga contro le isole e le divideva in due magari per rubare gli armenti. Questo Hermes polinesiano gli era simpatico, ma non si sentiva tranquillo per la borsa con tutti i suoi averi che si era messo sotto la testa . Si addormentò facilmente , sognò il molo di Viareggio e degli amici che aveva da ragazzo a cui non pensava da decenni. Non vennero gli dei a trovarlo, per fortuna. .
" La religione vuole sempre sangue, in un modo o nell'altro , pensò. Almeno qua il patto è chiaro."
Pensò con rabbia ai missionari cristiani che, arrivati in venticinque, ci avevano messo pochi decenni a distruggere una cultura, impicciarsi nelle lotte di potere, creare sensi di colpa e annullare la leggendaria libertà sessuale che aveva tanto entusiasmato i marinai di Wallis e Cook. Un chiodo per fare l'amore, bastava un chiodo in cambio, perché loro non lavoravano i metalli. Bouganville poi aveva ribattezzato Tahiti Nuova Citera .
" L'uomo bianco è una peste", pensò. " Io no, io sono buono, anche troppo, e poi nessuno mi ha chiesto un chiodo, anzi, qua mi sa che non batterò chiodo, le donne non mi vedono neanche."
Non era ancora l'alba quando un rumore vicino lo fece sobbalzare. era una gigantesca tartaruga che gli passava accanto, diretta verso il mare.
Senza sapere perché giunse le mani e la salutò all'orientale .
" Bell'incontro", pensò. Poi si spogliò e andò a fare il suo primo bagno , appena prima dell' alba . Prese il primo autobus, carico dei pendolari che andavano in città.

A Papeete si concesse una colazione in un buon caffè. Tanto aveva deciso di andarsene in un altra isola, con meno yacht attraccati in rada e gente vestita di bianco che cenava a poppa .
Andò al porto senza una meta precisa, deciso ad affidarsi al caso, almeno un po' . Scelse Huaine, perchè il la nave era in partenza subito e poi l'isola era meno nota di Morea e Bora Bora.
Il Tapporo IV era una vecchia carretta color rosa e ruggine, sul ponte bivaccavano intere famiglie con le galline e ceste piene di cibo ( che nessuno gli offrì). Uno di quei carghi che da troppo tempo girava tra le isole portando ogni tipo di merce. Non c'erano cabine, solo posto ponte e questo andava bene, ma quando entrò nel bagno per la prima volta dovette uscire precipitosamente per non vomitare. Sul pavimento sciabordava di tutto , in liquido nerastro.
Passò il viaggio trattenendo la pipì e ricordando i saggi consigli della mamma prima di mettersi in viaggio : falla ora perché dopo non ci fermiamo. Non era consolante sapere che c'erano 100 miglia marine da percorrere.

Huainè

Huainè era davvero stupenda, e poi scendere dal Tapporo IV gli avrebbe fatto apprezzare anche l'arrivo in un parcheggio ; Farè era un piccolo porto sonnacchioso, che si animò all'arrivo dei passeggeri: dieci minuti dopo tutti se ne erano andati e si ritrovò sperso sulla banchina.
Trovò posto in una pensioncina sul porto, il Fisherman hotel. Almeno era anche più economica del Travel Budget Hotel . Oltre alla famiglia dei proprietari ci alloggiava solo qualche viaggiatore di commercio. Finì che anche lui andava all'arrivo del Tapporo, ogni due giorni, come se si aspettasse qualche sorpresa . Per il resto esplorava i dintorni dell'isola che , come Tahiti, in realtà erano due: la leggenda voleva che il solito Hiro avesse scagliata la piroga contro l'isola spezzandola in due. Qua poi i locali ti facevano vedere le impronte delle mani sulle rocce e il fallo sul fondo del mare. Lui non ce lo vedeva, ma non lo disse, non si sa mai questo dio birbante se ne dovesse avere a male .
Nel nordest dell'isola grande c'era il più grande complesso archeologico di tutta la Polinesia : ci andò di giorno e non ne ebbe la stessa impressione potente della notte della tartaruga.
Aveva letto che una, portata dall'ammiraglio Cook, aveva campato oltre i centocinquanta anni. Quindi, pensò, aveva visto le isole felici , l'arrivo dei primi missionari, le lotte che avevano portato alla dinastia dei Pomarè, e , ma certo, aveva visto anche Gauguin e se aveva sepolto le sue uova sulla spiaggia, in una notte di luna come quella, vicino al mare di Mataiea, lei lo aveva sfiorato, lui immobile l'aveva guardata con l'attenzione feroce che dedicava a tutto .
Manetti pensò che stava sprecando tempo, e anche il porticciolo di Farè gli parve una distrazione che lo allontanava da sè. La mattina dopo prese un passaggio da un camioncino e se ne andò a sud, a Huainè Iti . Sapeva solo che una cugina del proprietario del Fisherman affittava una camera ai turisti : glielo aveva detto lei stessa.
Impossibile dimenticarla : si chiamava Ayu, era alta sul metro e ottanta e le si davano a occhio almeno novanta chili molto solidi.
La trovò sulla porta di casa, che fumava un sigarino. Le grosse braccia sembravano fuori misura anche nell'ampio vestito a fiori che portava . Era lo stesso che indossava la prima volta che l'aveva incontrata.
La camera era pulita e vedeva il mare : disse subito di sì. In casa vivevano almeno sei persone fisse : la madre di Ayu, una nonna e tre fratelli. Almeno questo gli era parso di capire, e comunque aveva rinunciato presto al tentativo di tenere a mente gli innumerevoli zii, zie e cugini . La televisione nel salotto era sempre accesa, davano programmi francesi di scarto, fondi di magazzino, rimasugli di archivio, soap operas.
La Francia sovvenzionava gli isolani anche culturalmente, e nessuno voleva davvero l'indipendenza. Non andavano a pescare e mangiavano tonno in scatola, questo gli pareva davvero incredibile. Però erano gentili con lui, lo avevano incluso nel ritmo sonnolento della casa. Uno dei fratelli fumava molta marijuana, che coltivava in un campo alto sulle colline; coerentemente ascoltava Bob Marley a giornate sane.
Ayu si era assunta in esclusiva il ruolo di intermediario tra " le professeur" e " la famille"".
Finalmente trovò il coraggio di chiederle : " perchè comprate il pesce invece di pescare ? "
" Vuoi pescare ? Se ti piace ti porto nel nostro motu . C' é un bel farae , ci potrai stare da solo."
Disse di sì , era tanto che non stava davvero solo, gli piaceva l'idea di giocare a Robinson Crosuè. La mattina dopo salì su una stretta canoa che Ayu conduceva con grazia insospettabile ; semmai era lui il goffo che salendo l'aveva quasi rovesciata.
Ayu pagaiava lenta verso un isolotto : c'era una casa tradizionale quasi sulla riva, un farae fatto di fibre di cocco .
" E' buono, ha resistito anche all'ultimo uragano."
Dentro non c'era nulla : Manetti sistemò il materassino con la testa verso est, visto che avrebbe fatto Robinson per qualche giorno voleva vedere il primo sole negli occhi. Ayu coltivava cocomeri sull'isola, era il suo business personale e ci veniva solo lei .
" I miei fratelli sono troppo pigri ."
Gli fece vedere dove erano le lenze e un'altra canoa, nel caso volesse farsi un giro o tornare a casa.; lo salutò placidamente :" Verrò domani. O forse dopodomani. "
Manetti si addormentò con fatica, la lampada a petrolio non gli bastava per leggere e comunque puzzava, ma non era capace di dormire al primo buio.
In compenso si svegliò davvero all'alba, prese i colori e cercò di fermare il riflesso del primo sole sull'acqua, sparando un giallo limone sul turchino del mare. Il risultato gli parve pessimo, ma almeno ci aveva provato. passò la giornata a fare schizzi di particolari : la forma acciambellata di una rete, il disegno della fibra di cocco, un cocomero. Guardava l'isola attraverso le sue matite.
Fece un bagno e vide più pesci di quanti ne potesse ricordare : Napoleon, pappagallo, Arlecchino, uno col muso a trombetta. Anche sotto al mare si esagerava con i colori.
Il tramonto arrivò e lo trovò sereno. Ayu non era venuta. Venne il giorno dopo, portò delle ottime polpette fatte con i frutti dell'albero del pane e cucinò con le erbe sulla brace il pesce Caron che lui aveva orgogliosamente pescato.
Poi andò a lavorare nel campo mentre lui disegnava. se ne andò prima del tramonto.
Il terzo giorno la aspettò all'ombra, perché si era ustionato per il troppo sole e la pelle lo straziava. Lei taglio qualche foglia di un cactus e le pestò su di un sasso mescolandone la polpa con la polvere e l'olio del cocco, poi lo fece sdraiare. Lo massaggiava con grande delicatezza tanto che nonostante le scottature quasi ci si addormentava. Ci fu una piccola sosta, poi si sentì strusciare la schiena da grandi seni morbidi, in cui spiccavano grossi capezzoli duri. Lasciò che gli sfilasse il costume e continuasse a massaggiarlo. Poi lo girò delicatamente sulle spalle, gli prese il pene e gli montò sopra. era una montagna di donna che si muoveva come un'onda. Andava piano e lui si stupì di quanto era eccitato. Lei venne con dei sospiri tutti dentro, come se inghiottisse l'aria con avide sorsate. Lui si era trattenuto e dopo poco le salì sopra di nuovo, fino a perdersi in quel grande, magnifico corpo . Poi nuotarono nella laguna facendosi scherzi da bambini. Non fu dispiaciuto che prima del tramonto se ne andasse e anzi gli piacque guardare la donna montagna che scivolava via pagaiando senza fare schizzi.
Ayù veniva tutti i giorni: mangiavano , nuotavano, facevano l’amore , parlavano anche un po’. Lui le chiedeva delle sue tradizioni, ma lei si scherniva : "io non ne so molto, dovresti parlare con mio zio, lui è un pittore come te, ed è figlio di Laere Po, un narratore. Lui sa le storie ."
“ Pittore come te “, , quella frase gli arrivò dritta al cuore e lo intimidì . Ma non disse nulla.
“ Sì, mi piacerebbe conoscere tuo zio “.
“ Sta a Maiao, ogni tanto va via a Tahiti , sennò devi andare da lui, non si muove mai .
Sono un po’ strani quelli di Maiao, non vogliono turisti, potevano avere l’aeroporto e non hanno voluto."
Cinque giorni dopo Ayù non volle fare l’amore , passò tutto il tempo nel campo dei cocomeri. Gli mancava: ricordò una frase : “non c’è pura bellezza senza un che di strano nelle proporzioni.”
Non avrebbe mai pensato di desiderare tanto una donna più grossa di lui.
Andando via gli disse : domani ti ho trovato un passaggio su una barca che va a Maiao : mio zio ti aspetta . Lasciò l’isolotto e quella notte dormì nella cameretta sperando che lei venisse nella notte, ma sapeva che non lo avrebbe fatto.

Maiao

La barca era piena di vecchi silenziosi, le onde lunghe alzate dal lupu, il vento del mattino davano scossoni regolari che imparò a prevedere. . Al moletto d’attracco non lo aspettava nessuno, si sentì deluso. Forse Ayù aveva voluto liberarsi di lui .
Chiese dello zio e gli indicarono una piantagione di banani nell’interni. Restò deluso di allontanarsi dal mare .
La casa dello zio era un farae in legno burao diviso in due da una parete di fibra . Fuori un’altra piccola , farae amù, casa per mangiare .
“ Puoi dormire qui “, gli disse il vecchio. Era lo stesso che gli aveva dato il passaggio a Tahiti. Sembrava non riconoscerlo e allora non gli disse nulla.
“ Non ci resterò molto”, pensò.
Al mattino quando si svegliò il sole era già alto. Il vecchio non c’era ma fuori dalla porta c’era della frutta , con foglie fresche attorno.
Ayu aveva detto che il vecchio era un pittore, ma lui non lo vedeva mai dipingere.
Si accorse che il vecchio aveva guardato i suoi disegni: aveva rimesso il blocco esattamente nella stessa posizione, ma aperto a una pagina diversa. Non gli dispiacque .
A volte lo accompagnava nel lavoro dei campi . Non avevano parlato di soldi per l'ospitalità, non sembrava che fosse il caso. Gli avrebbe fatto un regalo . Ci avrebbe pensato prima di andare via, e poi si trattava di pochi giorni. Non voleva sentirsi in debito. Era strano, due uomini solitari che stavano volentieri assieme, questo pensava Manetti mentre fumavano una sigaretta davanti a casa, al tramonto.
“ Tu sei religioso ? Vai alla Chiesa ? “, gli chiese il vecchio.
“ Non vado in chiesa ".
Gli venne una sincerità aggressiva :"non credo che ci sia un Dio ".
“ Ma questa bellezza qualcuno l’ha creata . Tahora ha chiamato, ma nessuno ha risposto. Essendo il solo essere vivente il Dio si è fatto Universo."
Sì , doveva essere andata così, la creazione era un magnifico sforzo per vincere la solitudine.
La sua mano era migliorata, il tratto si era semplificato, usava il colore con più coraggio . Pensava a Gauguin senza un soldo che dipingeva rabbioso per l’esposizione di Parigi. Non aveva neppure i soldi per la spedizione dei quadri : “ assieme alla mia lettera riceverete , penso, un sacco di tele. Pagamento per rivalsa. Scusatemi, non posso fare in altro modo.”
Lui non aveva nessuna esposizione da fare e lo stipendio gli arrivava direttamente in banca, pochi ma sicuri. Aveva fatto venti schizzi, niente di paragonabile ai cinquantanove dipinti che Paul aveva riportato in Francia. Però lui c’era stato due anni, mica due mesi.
Sapeva che il suo tempo stava per finire, eppure Lucca e il suo liceo erano lontani come ricordi di infanzia per cui non provava nostalgia o avversione. Era ben cosciente che lei lo aspettava, quando ci pensava gli si tendeva un filo tra la pancia e il cuore e doveva fare qualcosa per pensare ad altro.
“ Ti piace stare qui ? “, gli aveva chiesto il vecchio. “ Se vuoi puoi restare. La mia terra è grande, puoi costruirti un farè.”
Certo avrebbe potuto restare, non gli mancava proprio nulla. ; sorrideva pensando ai tre giornali che leggeva avidamente a casa. Lucca non era più casa sua e questa non lo era ancora.
“ Forse ho raggiunto il distacco, forse sono diventato buddista senza accorgemene”, pensò. Ci volle poco ad accorgersi che non era così.
" Mi vai a prendere gli ami grandi ? Oggi usciamo dall’Aribai pass e andiamo a tonni."
Non aveva trovato gli ami nella prima stanza ed era entrato dove sapeva che dormiva il vecchio.
C’ era una tela girata verso il muro : finalmente poteva vedere un quadro del vecchio. La girò e smise di respirare : rappresentava una donna giovane dalla pelle bruna, semisdraiata, appoggiata a una grande tartaruga. La tela aveva una lacerazione, il blu del cielo era ossidato ma non c’erano dubbi : era un Gauguin. In un angolo c’era la firma, sotto a una scritta in Maori.
Ci volle un po’ prima che ricordasse che il vecchio lo aspettava, allora cercò di imprimersi nella memoria l’immagine in ogni dettaglio. Poi trovò gli ami , che erano nell’altra stanza ( come aveva fatto a non vederli ? ), tornò indietro per rigirare il quadro verso la parete e andò alla spiaggetta. Cercava di camminare normale ma il cuore gli batteva troppo forte.
“ Non li trovavo “, si giustificò, e subito gli parve che il vecchio lo guardasse dubbioso. Calma, niente paranoie .In barca si distrasse e perse un pesce dall’amo, facendo molto ridere il vecchio: “ un francese non se lo sarebbe fatto scappare, quelli non mollano nulla.”
Il suo corpo restava sulla barca, ma la testa era già voltata in Europa : ma certo, gli era parso curioso che Gauguin avesse mandato in Francia cinquantanove dipinti, quello era il sessantesimo : forse lo aveva regalato, o ci aveva pagato un piccolo debito, magari in cambio di vitto e alloggio,visto che era sempre drammaticamente in bolletta.
Il vecchio doveva sapere senz’altro chi era Gauguin, come aveva fatto a tenere il segreto tutti quegli anni ? Magari nessuno sapeva, lo teneva addirittura girato verso il muro, viveva solo, chi mai entrava in camera sua ?
Forse sua nipote Ayu ,forse per questo lo aveva mandato lì, per dargli una possibilità di scoprirlo.
Certo non lo avrebbe derubato, ma era una scoperta troppo importante per tenersela per se. Avrebbe fatto di nascosto delle foto quando il vecchio era nel campo, anzi, quando era in mare, meglio ancora, più sicuro. Sarebbe stata una bella storia, il sessantesimo Gauguin, il Gauguin fantasma, l'ultimo Gauguin . Poteva immaginarsi i titoli sulle riviste d’arte, anzi sui giornali.
Molti lo avrebbero messo in dubbio, lo avrebbero attaccato, senza poter vedere il quadro poi, come poteva sperare che gli credessero ? Comunque sarebbe diventato famoso, come minimo avrebbe pubblicato la monografia su Gauguin che aveva sempre voluto scrivere : sarebbe stata diversa da tutte le altre, nessuno di quegli studiosi da museo aveva avuto le sue esperienze. Li avrebbe presi in giro : sapete costruire un tetto con le foglie di pandano ? Neanche lui, ma almeno lo aveva visto fare al vecchio.
Certo la pressione dei media sarebbe stata tremenda e lui doveva proteggere il vecchio e il suo segreto. Oppure parlarci, mettersi d’accordo, avrebbe potuto diventare ricchissimo e lui non avrebbe voluto niente, al massimo la mediazione , il normale dieci per cento. Anche il dieci per cento era un sacco di soldi . A quanto era andato l’ultimo Gauguin apparso in un ’asta ? Doveva controllare tutte le quotazioni degli ultimi cinque anni. Bisognava muoversi con prudenza , prendere contatto con le case d’aste più importanti, Christie’s o Sotheby, meglio a Londra o a New York, certo non in Italia. Questo nel caso che il vecchio avesse voluto vendere, e sembrava improbabile. Ma se Ayù sapeva, era merito suo la scoperta, almeno un po’ : avrebbe pensato anche a lei, le avrebbe dato la sua parte, generosa .
Non era un pescecane, lui. E nemmeno francese.
E se il vecchio non ne voleva proprio sapere ? In fondo il quadro era suo, aveva il diritto di farne quello che gli pareva. Gli venne in monte la storia di Kafka morente, che fa promettere all’amico Max Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti. Brod lo tradì e l’umanità potè leggere quei capolavori, che in fondo le appartenevano. Era Kafka l’egoista, lui stava dalla parte di Brod, lo aveva sempre detto, anche se ora provava un senso di disagio nel ripeterselo. Una cosa era dirlo in teoria, una cosa era avere tra le mani anche il destino del vecchio.
Tutta la pace che aveva raggiunto in sei settimane era svanita, nei giorni seguentì non riuscì a pensare ad altro e si godette ben poco la bellezza d’intorno. Il vecchio non gli parlava quasi più e lui si sentiva in colpa prima ancora di avere fatto nulla, neppure una foto. Ormai mancava una settimana alla partenza. Doveva sbrigarsi con le foto e poi parlare con il vecchio. O forse il contrario, era più giusto parlarci prima di fare le foto : che diritto aveva di farle ?
Il diritto di Max Brod, si disse, essere leali verso l’umanità piuttosto che verso quel vecchio. Del resto non avrebbe fatto il suo nome, lui poteva continuare a tenere il suo Gauguin girato verso il muro.
Sapeva che non era vero, anche se lui avesse taciuto ci sarebbe voluto poco a ricostruire tutti i suoi spostamenti, il più stupido dei detective privati lo avrebbe rintracciato in due settimane e non avrebbero usato col vecchio troppi riguardi. Magari lo avrebbe messo in pericolo.
Forse Brod si era sentito in colpa tutta la vita.
Il vecchio lo invitò di nuovo a pesca. Mangiarono in barca le gonadi di riccio con il limone e parlarono . Manetti aveva una curiosità :” siete tutti cristiani, andate a Messa più di noi. Ma della vostra religione che ne è stato ?"
“ Dove è la differenza ? Il Mana è dappertutto. Le basi sono Tahora, Tahora sono la sabbia e le rocce sono Tahora. Tahora ha dormito con la Dea delle cose di Fuori, con la Dea del Mare. Da loro sono venute le nubi nere, le nubi bianche e la pioggia. Tahora ha dormito con la Dea delle cose di dentro, con la Dea della Terra, e da loro è nato il Primo Germe. E poi è nato tutto ciò che cresce sulla Terra , è nata la nebbia dei monti. E ancora colui che si chiama il Forte, e colei che si chiama la Bella, o la Ornata per piacere."
Il Vecchio continuò a lungo , sgranando la genealogia di ogni cosa, di ogni passione, di ogni emozione.
Dapprima ne fu incuriosito, poi stupefatto per la meraviglia di tanta complessità, poi ne provò un rispetto silenzioso, che gli impedì di chiedere altro. Sembrava che potesse andare avanti per sempre a dire l’origine delle cose. Ricordo un affresco del dodicesimo secolo, sulla parete di un’abbazia umbra semicadente, San Pietro in Valle. Vi si vedeva Adamo che dava il nome alle cose e agli animali, circondato di splendidi pavoni. Anche il paradiso ha bisogno di nomi, ma devono essere detti poco a poco, e nel modo sacro.
Quando il vecchio tacque rimasero in silenzio. Che altro c’era da dire ?, era il discorso più lungo che gli avesse mai fatto.
A riva saltò giù dalla barca con la rete in mano e sentì una fitta lancinante sotto il piede sinistro. Più forte di quando aveva pestato la tracina, e il dolore invece di scemare si spandeva per tutto il corpo. Perse conoscenza. Quando riaprì gli occhi la prima cosa che vide fu la ragazza con la tartaruga . Era nella stanza del vecchio . gli sembrava di avere il corpo pieno di sabbia, il sole era rosso.
“ Il pesce pietra “, disse il vecchio, “ molto doloroso. E pericoloso.”
Già quel pesce che si nasconde sul fondo, mimetico : in una vasca d’acquario ci aveva messo un bel po’ a trovarlo: un veleno mortale, aveva letto.
“ Come mai non sono morto ? “
“ Non tutti muoiono. Ma ti ha aiutato il mana del Takamaka “, disse indicando verso la spiaggia dove crescevano quei grandi alberi. “ Le foglie sono l’unica medicina. Ci vuole un po’ a smaltire il veleno, devi bere molta acqua del cocco e mangiare papaia. Pulisce il fegato. In pochi giorni starai bene, se vuoi potrai partire.”
Manetti sorrise. Aveva mancato per poco una fine degna di Gauguin : ucciso dal potente veleno del pesce pietra. Ai suoi studenti la storia sarebbe piaciuta , in fondo.
Indicò il quadro :” è di Gauguin , vero ?”
“ Sì. La vahinè è Tehura. Era la madre di mia madre . Fu la sua prima sposa sull’isola. Aveva tredici anni. Poi lui partì e lei sposò mio nonno . Lei mi raccontò che era una tartaruga magica, che stava in fondo a una grotta, dove l'aveva vista il francese. Ma è strano. Le tartarughe stanno in mare.”
A Manetti scese un brivido : Paul aveva scritto sul diario di quell’immersione : “ Per uno strano fenomeno, man mano che procedevo verso il fondo della grotta, essa si faceva più lontano. Andavo avanti comunque e da ciascun lato i serpenti mi guardavano con ironia. Per un istante credetti di vedere galleggiare nell’acqua una grossa tartaruga ; per essere più preciso , la testa uscì dall’acqua per sfidarmi. Assurdità, naturalmente : le tartarughe di mare non vivono in acqua dolce..”
Manetti sentì che gli avevano aperto una finestra sul passato, vide Paul, vide Tehura , vide lo splendore nascosto. Quando riaprì gli occhi era già buio, e il quadro era di nuovo girato verso la parete.
Dopo due giorni di papaia non solo stava meglio, ma sentiva una leggerezza dentro del tutto nuova. Era tempo di partire .
Il suo corpo in quelle sette settimane era cambiato, più asciutto e più forte. Si piaceva. Ci volevano due giorni per andare a Papeete e aspettare il volo.
Il vecchio gli disse : “ vuoi che ti tatui ? “
Aveva sempre desiderato un tatuaggio e aveva sempre resistito, sapendo che era per sempre. Ma sì, se c’era un posto giusto e un momento giusto per farlo era questo.
Il vecchio portò una noce di cocco e ci preparò un intruglio fuligginoso. Poi prese un piccolo pettine d’osso dai denti aguzzi. Lo intingeva e picchiettava rapido e deciso. Manetti gli dava l’avambraccio senza guardare, come quando donava il sangue.
Quando il vecchio si fermò sorrise alla tartaruga che scendeva verso la mano.
Prima di partire nascose in casa del vecchio i colori e un piccolo ritratto che gli aveva fatto di nascosto. Stavolta il vecchio lo accompagnò alla barca per Papeete e rimase sulla spiaggia finché non fu lontano.
Anche quella mattina soffiava il lupu e le onde erano lunghe in mare aperto.
Perché Gauguin aveva lasciato quel quadro ? Era un regalo per Tehura ? Non gli piaceva ? O forse lei glielo aveva chiesto con quell’insistenza capricciosa con cui lo obbligava a comprarle i regali. Magari glielo aveva rubato. Avrebbe fatto bene, pensò.
No, lui non era Max Brod, non avrebbe tradito il vecchio: niente giornali , niente televisioni o aste miliardarie. E poi chissà, era proprio sicuro che fosse autentico ?
I colori erano opachi, e Ayu aveva detto che il vecchio era pittore..
Niente monografie , niente celebrità per il professore di Lucca. Al massimo ne avrebbe tratto un racconto, aveva già in mente il titolo : “ La tartaruga di Gauguin.”

Andrea Bocconi

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